È vecchia di dieci anni l’ultima visita amichevole di Abu Mazen in Israele: l’indirizzo quella volta era la residenza di Benjamin Netanayhu, in Rehov Balfour, e i sorrisi di Sarah a Mahmoud Abbas di nuovo invadono i teleschermi, in memoria. Invece, non esistono immagini dell’incontro nella casa di Rosh Haayin del ministro della Difesa israeliano Benny Gantz con il presidente palestinese. Gantz lo ha ricevuto alle 20,30 di martedì per due ore, con pochi intimi politici e tecnici. È stato un incontro importante? Si sono dette cose serie? Perché ha avuto luogo? Di sicuro gli ha dato molto importanza Hamas, Ismail Hanyie ha attaccato a testa bassa lo sgarro disgustoso dicendo che Abu Mazen «tradisce l’Intifada»; e per spiegare come si fa invece, dopo poche ore ha sparato oltre il confine a casaccio ferendo un civile e suscitando la reazione dell’esercito, che ha risposto e ferito tre persone.
Hamas ha voluto rubare la scena al leader 87enne, ma per ora è lui che ha spiazzato l’opinione pubblica palestinese e israeliana che in questi giorni si era abituata al ritmo serrato di attentati a fuoco, coltelli, auto. Otto in due settimane, di cui due mortali. Il clima si è surriscaldato: gli attacchi palestinesi, come per esempio quello in due riprese, ai santuari come la tomba di Giuseppe, nei Territori, si alternavano alle risposte dei residenti dei territori infuriati. Gli attacchi con le pietre si erano moltiplicati, le reazioni israeliane sono andate oltre i limiti di legge. Insomma, un clima iper eccitato, quasi una nuova Intifada che ha preoccupato anche Abu Mazen: ogni situazione estrema è pane per i denti di Hamas, come si è visto nella guerra di maggio. Abu Mazen non ha interesse allo scontro generale: un paio di settimane fa due israeliani entrati per sbaglio a Ramallah sono stati sottratti al linciaggio dalla polizia palestinese.
Come calmare il terreno? L’incontro ha trattato di questo: Abu Mazen, si sussurra, ha ribadito la sua intenzione di non arrivare a scontri fatali, di evitare l’escalation, di tenere saldo l’accordo di sicurezza che tante volte lo ha salvato da Hamas. Per gestire la situazione, ha ottenuto mezzi economici e facilitazioni, oltre a più controllo dei settler. Ha ottenuto più permessi di lavoro, più ingressi in Israele, il transfer di 100 milioni di shekel (25 milioni di dollari circa) delle tasse che Israele raccoglie, la legalizzazione dello status di 6mila cittadini del West Bank e di 3.500 di Gaza e altre «misure di fiducia».
È già successo con gli accordi Abramo, che le misure pratiche, lo scambio, siano portatrici di buone speranze. Ma lo sfondo qui è Abu Mazen, un leader che, anche se certo, a differenza di Arafat, non tenta di affogare nel sangue Israele, pure dà prova da sempre di inimicizia inguaribile: è lui l’inventore delle peggiori forme di delegittimazione dello Stato Ebraico, che irrora di prensili falsità come quella dello «stato di apartheid» o della «illegalità internazionale» o della «pulizia etnica». Il suo passato di negatore della Shoah si mescola all’erogazione milionaria di stipendi per i terroristi, al sostegno degli shahid dai testi scolastici alla santificazione dei terroristi suicidi. È difficile crederlo un partner.
La destra, all’interno dello stesso governo di Gantz, critica aspramente il suo ministro che ha «aperto la casa» a un nemico dichiarato, la sinistra, sempre dentro il governo, lo loda. E Bennett dice che non sapeva nulla dell’incontro. Ma è difficile crederlo. Gantz ha obiettivi condivisibili dall’attuale governo: sicurezza interna e simpatia americana. Biden ci tiene a riaprire il dialogo palestinese, mentre in questi giorni decide sulla trattativa con l’Iran degli ayatollah atomici.