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    Come abbiamo perso la coda

    Da bambino Bo Xia si era chiesto qualche volta come mai non avesse la coda come altri animali, ma non avrebbe mai immaginato che da adulto avrebbe dedicato buona parte del proprio dottorato in biologia a questo argomento. Non lo pensava nemmeno mentre studiava alla New York University, ma le cose cambiarono dopo che ebbe un piccolo infortunio al coccige, la parte finale della colonna vertebrale, l’ultima testimonianza della coda che milioni di anni fa possedevano gli antenati degli umani moderni. Quell’incidente portò Xia a interessarsi nuovamente alla coda e a pubblicare, dopo una lunga e difficile ricerca, uno studio che aiuta a spiegare i meccanismi genetici che ci portarono a perderla.Tra i vertebrati la coda è un elemento estremamente comune e tutti i mammiferi ne sviluppano una durante lo sviluppo embrionale, anche se questa non necessariamente è poi presente alla nascita. Nel caso degli esseri umani, per esempio, la coda scompare all’incirca all’ottava settimana di gravidanza e ne rimangono solo alcune piccole tracce che formano il coccige (le sue dimensioni variano molto a seconda delle persone).
    La maggior parte delle scimmie ha la coda, ma fanno eccezione gli ominoidi (Hominoidea), cioè gli esseri umani e quelle che vengono spesso definite “scimmie antropomorfe” (oranghi, gibboni, gorilla, scimpanzé). Questa netta distinzione ha fatto ipotizzare da tempo che la perdita della coda fosse coincisa con la fase in cui gli ominoidi si differenziarono dall’antenato in comune con le scimmie circa 25 milioni di anni fa.
    Circa tre anni fa, quando era ancora convalescente dall’incidente al coccige, Xia iniziò ad approfondire le proprie conoscenze sui geni sospettati di essere coinvolti nello sviluppo della coda. Si interessò agli studi della scienziata ucraina Nadine Dobrovolskaya-Zavadskaya, che alla fine degli anni Venti del secolo scorso aveva analizzato alcuni topi dalla coda insolitamente corta, arrivando alla conclusione che la loro condizione fosse determinata da una particolare mutazione in un gene chiamato T. Negli anni seguenti altre ricerche avrebbero portato a identificare un gene simile anche negli esseri umani, oggi noto come gene TBXT e molto conosciuto dai genetisti e da chi si occupa di evoluzione umana.
    Xia si mise a confrontare il gene TBXT degli esseri umani con il suo equivalente in altri ominoidi e notò che avevano in comune un pezzetto di DNA (una “sequenza alu”), assente invece nelle specie di primati con la coda. Insieme ad alcuni colleghi, Xia approfondì la questione e preparò una ricerca, che fu pubblicata nel settembre del 2021 in una forma preliminare, quindi senza avere ancora ricevuto una revisione da parte di studiosi che non avevano partecipato alla ricerca (il processo che viene chiamato di “peer review”).
    Nel loro studio, Xia e colleghi spiegavano che quel pezzetto di DNA poteva far sì che il gene TBXT portasse talvolta alla produzione di una proteina lievemente diversa rispetto a quella che si produce normalmente. Secondo il gruppo di ricerca ciò avveniva nella fase di trascrizione del materiale genetico necessaria per produrre la proteina e a sostegno di questa ipotesi portava alcuni esperimenti condotti sui topi. Modificando le caratteristiche del gene, Xia era infatti riuscito a ottenere topi con code più corte del solito o completamente assenti, oppure con code lunghe e attorcigliate.
    La ricerca era promettente, ma non dimostrava che qualcosa di simile avvenisse anche con il gene TBXT vero e proprio. Il problema fu segnalato da chi era incaricato di effettuare il processo di peer review, con la richiesta a Xia e colleghi di approfondire lo studio e portare nuove dimostrazioni. Gli esperimenti di laboratorio, in parte già avviati, avrebbero alla fine richiesto più di due anni per essere realizzati e rivisti. Dopo 900 giorni, lo studio è stato infine pubblicato sulla rivista scientifica Nature questa settimana.
    Come spiegano Xia e colleghi, gli esperimenti aggiuntivi effettuati trasferendo il pezzo di DNA di TBXT nel gene equivalente dei topi non hanno portato a cambiamenti significativi nella caratteristica della proteina, di conseguenza i topi avevano code con lunghezza nella media. In un’altra serie di esperimenti, invece, il gruppo di ricerca è riuscito a simulare nei topi ciò che avviene negli esseri umani, portando alla nascita di topi con una coda corta o completamente assente.
    Lo studio di Xia e colleghi è stato accolto con grande interesse, non solo per i nuovi elementi che porta su un punto importante dell’evoluzione umana, ma anche per le difficoltà che il gruppo di ricerca ha dovuto affrontare nel realizzare una grande quantità di modelli in laboratorio. I 900 giorni di lavoro successivi alla presentazione della ricerca preliminare hanno reso più solida e affidabile la ricerca, dimostrando come alcuni elementi mobili del DNA possono influire in modi talvolta inattesi nei processi evolutivi.
    La ricerca aiuta a capire come gli ominoidi persero la coda, ma non spiega completamente perché, una questione del resto molto più complessa e che forse non avrà mai risposta. Una delle ipotesi più condivise è che perdere la coda avesse costituito a un certo punto un vantaggio evolutivo, favorendo l’andatura eretta. Studi su specie molto antiche di primati ora estinte ipotizzano che la capacità di utilizzare prevalentemente i due arti inferiori per muoversi iniziò a svilupparsi nei nostri antenati che vivevano ancora tra le fronde degli alberi, diventando poi un elemento centrale per il bipedismo al suolo.
    Non tutti sono però convinti da questa spiegazione, semplicemente perché ci sono elementi per ritenere che la coda non impedisca di sviluppare il bipedismo. Ancora oggi ci sono alcune specie di primati come il cebo barbuto (Sapajus libidinosus) che utilizzano principalmente gli arti inferiori per muoversi, ma che all’occorrenza sfruttano la coda per mantenersi meglio in equilibrio.
    Un’altra ipotesi è che, nei grandi cambiamenti di territorio e clima che si verificarono 25 milioni di anni fa nei territori che più o meno oggi corrispondono all’Africa orientale, alcune popolazioni di ominoidi rimasero a lungo isolate e nei processi casuali di trascrizione del materiale genetico di generazione in generazione (deriva genetica) si produssero le alterazioni nel gene TBXT. Seguendo questa ipotesi, fu in un certo senso l’isolamento di alcune popolazioni con un numero ridotto di individui a far sì che si avviasse il processo di perdita della coda.
    Il gene TBXT è studiato da tempo ed è probabile che il lavoro di Xia e colleghi porti altri gruppi di ricerca ad approfondire la storia della nostra coda, che non c’è più. LEGGI TUTTO

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    Perché mezzo mondo è intollerante al lattosio

    Caricamento playerIl latte è una delle bevande più consumate al mondo, eppure la maggior parte della popolazione mondiale ha diversi gradi di intolleranza al lattosio, il principale zucchero presente nel latte. La distribuzione delle persone che non riescono a digerirlo non è però omogenea: ci sono posti del mondo in cui quasi tutte le persone riescono a bere il latte senza problemi, come l’Irlanda e buona parte del nord Europa, e altre dove l’intolleranza è molto diffusa, come in alcuni paesi asiatici. Le ragioni di queste marcate differenze sono ancora oggi un mistero, ma le molte ipotesi formulate in questi anni sulla base di test, esperimenti e grandi quantità di dati suggeriscono qualche spiegazione e soprattutto dicono qualcosa su come siamo fatti e su come ci siamo evoluti.Nei primi anni di vita quasi tutti i mammiferi riescono a digerire normalmente il latte, l’unico alimento per i piccoli di molte specie compresa la nostra. Questa digestione è resa possibile dalla lattasi, un enzima che si occupa di scindere il lattosio in glucosio e galattosio, rendendo il latte più facilmente digeribile dall’organismo. Dopo lo svezzamento, l’attività dell’enzima si riduce in quasi tutti i mammiferi, determinando una intolleranza al lattosio. In alcune popolazioni umane, però, la lattasi si mantiene attiva e rende possibile la normale digestione del latte anche in età adulta, una condizione che viene definita: “persistenza di lattasi”.L’assenza o la minore attività della lattasi dopo i primi anni di vita fa sì che il lattosio non venga scomposto efficacemente, comportando problemi soprattutto a livello intestinale dove il lattosio fermenta. I meno esposti al problema hanno disturbi lievi, mentre chi ha maggiori difficoltà digestive fa spesso i conti con mal di pancia, accumulo di gas intestinale ed episodi di diarrea, che possono essere ricorrenti e nei casi più gravi debilitanti. A queste persone viene consigliato di solito di astenersi dal consumo di latte e di molti dei suoi derivati, oppure di assumere farmaci che aiutano l’organismo a digerire il lattosio.La persistenza di lattasi varia molto tra le popolazioni di esseri umani. Si stima che in Grecia ce l’abbiano solo due persone su dieci, mentre nei paesi nordici europei si arriva a 8-9 su dieci. Tra i più tolleranti al lattosio ci sono gli irlandesi, dove si stima che la persistenza di lattasi riguardi la quasi totalità della popolazione. In Cina si stima che più dell’85 per cento della popolazione sia intollerante al latte e le percentuali sono molto alte in numerose zone dell’Africa, per quanto con qualche eccezione. Spiegare questa grande varietà nella distribuzione geografica non è semplice, ma aiuterebbe a comprendere meglio non solo il problema dell’intolleranza al lattosio, ma anche a capire come mai talvolta l’evoluzione si muove molto rapidamente.Percentuale della popolazione in grado di digerire il lattosio (Wikimedia)La capacità di digerire o meno il lattosio ha infatti una componente genetica molto importante, mentre sembra avere meno a che fare con l’abitudine di continuare a bere il latte dopo lo svezzamento (come invece si sente dire spesso). Di solito è sufficiente che uno dei due genitori abbia la persistenza di lattasi per trasmetterla alla prole, perché basta una variante del gene che regola l’enzima per digerire efficacemente buona parte del lattosio in una porzione di latte. Ma come mai ci sono posti del mondo in cui sono praticamente tutti tolleranti al latte e altri dove regna il mal di pancia?L’ipotesi più condivisa, per quanto ancora discussa, è che la persistenza di lattasi iniziò ad affermarsi in alcune popolazioni umane dopo la domesticazione e l’allevamento di alcune specie animali che producevano latte, circa 10mila anni fa. Prima di quel periodo le popolazioni di cacciatori-raccoglitori erano intolleranti al lattosio, secondo gli studi paleogenetici, basati quindi sulle caratteristiche genetiche degli umani più antichi.L’allevamento aveva reso disponibile in breve tempo il latte come nuovo alimento nella dieta di molte persone: era nutriente e permetteva di sfruttare molto più velocemente gli animali per nutrirsi rispetto alla macellazione delle loro carni, che era più laboriosa e richiedeva tempi più lunghi. La maggiore disponibilità di latte fu quindi probabilmente uno dei fattori che favorirono una rapida evoluzione della nostra specie verso la capacità di produrre la lattasi. Come avviene spesso con l’evoluzione, il processo non fu però omogeneo e fu condizionato da numerosi fattori, come mostra il caso europeo.Ancora 5mila anni fa pochissimi esseri umani riuscivano a digerire il latte, nonostante fosse ormai alquanto diffuso. Le cose cambiarono però drasticamente in poche migliaia di anni, quando nelle popolazioni del nord Europa si presentò una mutazione genetica che cambiò tutto, rendendo possibile l’attuale tasso del 95 per cento circa di tolleranza al lattosio tra chi vive nei paesi nordici europei.Per capire che cosa determinò questa accelerazione, un gruppo internazionale di ricerca ha provato a tenere traccia del consumo di latte da parte delle antiche popolazioni europee a partire da 9mila anni fa. Ha analizzato più di 13mila frammenti di vasellame rinvenuto in vari siti archeologici ed è andato alla ricerca delle tracce lasciate dalle sostanze grasse del latte penetrate all’interno dei recipienti utilizzati dai nostri antenati. L’analisi ha permesso di confermare che già 9mila anni fa il latte veniva consumato dalle popolazioni europee.Una successiva analisi basata sull’esame del materiale genetico di oltre 1.700 resti di esseri umani ha poi permesso di riscontrare l’emergere della variante del gene responsabile della persistenza di lattasi intorno a 5mila anni fa, a conferma del fatto che per molto tempo il latte era bevuto in assenza o con attività ridotta della lattasi. Dalle analisi dei dati raccolti non era emersa una differenza particolare nel consumo di latte prima e dopo l’avvento della persistenza di lattasi: a quanto pare la possibilità o meno di digerire il latte non fu così determinante nella sua diffusione e in quella dei suoi derivati (che hanno una concentrazione variabile di lattosio, spesso più bassa). Quelle popolazioni non lasciavano che gli effetti spiacevoli condizionassero il consumo di latte.A ben vedere, qualcosa di analogo avviene ancora oggi. Una ricerca condotta nel Regno Unito su circa 500mila individui non ha trovato differenze significative nel consumo di latte tra chi ha la persistenza di lattasi e chi non ce l’ha. Gli intolleranti al lattosio non sembrano avere problemi di salute nel lungo periodo se consumano ugualmente latte, né in termini di longevità né di capacità di riprodursi. L’ipotesi è che nell’antichità il latte fosse quindi consumato pur con qualche inconveniente perché i benefici erano superiori agli aspetti negativi.Questa osservazione non aiuta però a spiegare come mai a un certo punto molte popolazioni europee svilupparono ugualmente la persistenza di lattasi e così velocemente. Se potevano bere lo stesso il latte, che beneficio avrebbe portato svilupparla?Non c’è ancora una risposta condivisa e convincente fino in fondo, ma gruppi di ricerca hanno sviluppato alcune teorie. Una è che probabilmente lunghi e difficili periodi di carestia accelerarono la diffusione della variante del gene che rende tolleranti al lattosio. In condizioni normali è probabile che nessuno morisse per un’intolleranza al lattosio, visto che gli effetti sono dolori addominali e nel peggiore dei casi qualche episodio di diarrea. Ma avere questi disturbi quando si è malnutriti a causa della mancanza di cibo cambia le cose: episodi ricorrenti di diarrea debilitano ulteriormente l’organismo, favoriscono la disidratazione e nei casi più gravi possono causare la morte.In mancanza di altro cibo è probabile che ci fosse un maggior ricorso al latte, peggiorando ulteriormente la situazione per chi era intollerante. Dobbiamo immaginare che ciò avvenisse in un mondo molto diverso dal nostro, dove infezioni e malattie ora curabili con facilità potevano rivelarsi letali. In un contesto simile, gli individui con persistenza di lattasi avevano più probabilità di sopravvivenza rispetto agli intolleranti al lattosio. Ci fu di conseguenza una rapida selezione che insieme ad altre mutazioni del tutto casuali a livello genetico favorì l’emergere di popolazioni via via più in grado di digerire il lattosio. Il fenomeno si verificò in modo disomogeneo in varie aree dell’Europa favorendo la diversità che riscontriamo ancora oggi.Un’altra teoria simile vede come causa le epidemie al posto delle carestie. Le prime popolazioni vivevano al chiuso in ambienti poco spaziosi e a stretto contatto con gli animali, in condizioni che potevano favorire la circolazione di virus e batteri. Se si ammalavano in molti c’erano minori possibilità di gestire il raccolto, la disponibilità di cibo diminuiva e si faceva un maggior ricorso al latte. Le persone già debilitate dalla malattia e intolleranti al lattosio avevano minori possibilità di sopravvivenza rispetto a chi aveva la persistenza di lattasi e l’avrebbe poi trasmessa alla prole.Le simulazioni basate su queste teorie fanno riscontrare una corrispondenza tra l’aumento della persistenza di lattasi tra le popolazioni europee e i periodi in cui ci furono carestie ed epidemie. Lo stesso approccio fatica però a trovare spiegazioni convincenti per altre aree del mondo. Nelle steppe tra Europa e Asia ci sono popolazioni che tradizionalmente consumano molto latte, ma tra i cui individui c’è una bassa percentuale di persone in grado di digerire il lattosio.Oltre al vasellame e alle analisi del materiale genetico, informazioni sul consumo di latte in tempi relativamente più recenti possono essere derivate dalle testimonianze scritte. Alcuni autori dell’antica Roma, per esempio, segnalavano nei loro testi con una certa sorpresa un importante consumo di latte da parte dei popoli nordici. Le condizioni climatiche probabilmente influivano sulla minore disponibilità e varietà di cibo nel nord dell’Europa, rendendo più significativo il ricorso al latte come alimento.Uno studio realizzato sulle isole britanniche ha rilevato che la persistenza di lattasi si diffuse agli inizi dell’età del ferro, circa un millennio prima della sua forte presenza in alcune aree dell’Europa continentale. Anche in questo caso la tempistica sembra indicare che il latte divenne in quel periodo un’importante fonte alimentare. L’alta percentuale di persone che digeriscono il latte avrebbe influito molti secoli dopo sulla diffusione della bevanda anche in luoghi dove non viene digerita, almeno secondo alcune recenti analisi sulla storia dell’intolleranza al lattosio.Nel suo libro Spoiled, parola che in inglese significa “avariato”, la storica culinaria statunitense Anne Mendelson scrive che quando il Regno Unito divenne una potenza mondiale estendendo il proprio dominio in numerose colonie, esportò nei territori conquistati tradizioni e usanze compresa quella di bere il latte. Era considerato un alimento nutriente, completo, relativamente economico e facile da digerire, almeno così ritenevano i britannici dall’alto della loro persistenza di lattasi.Popolazioni che non bevevano latte non processato, o che comunque lo bevevano in rare occasioni, si ritrovarono a cambiare le loro abitudini con le difficoltà del caso. Lo stesso avvenne in seguito anche quando gli Stati Uniti iniziarono a essere una potenza mondiale e ad avere una grande influenza su altri paesi. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, ricorda sempre Mendelson, alcuni medici iniziarono a comprendere il latte nelle loro indicazioni per la dieta dei pazienti e nei loro trattati, sostenendo che tutti gli esseri umani potessero digerirlo senza problemi. Dopo la Seconda guerra mondiale l’approccio rimase il medesimo, con campagne volte a incentivare il consumo di latte in molti paesi, spesso dovuto alla necessità di sostenere economicamente il settore.Al crescente numero di persone che consumavano latte non corrispose un aumento considerevole di casi segnalati, soprattutto per i motivi che abbiamo già visto: gli effetti dell’intolleranza variano moltissimo da persona a persona, al punto che molti trascorrono la loro intera esistenza senza scoprire di essere intolleranti al lattosio. In alcuni casi è stata riscontrata la capacità del microbiota – che viene chiamato spesso genericamente “flora intestinale” – di favorire la digestione del lattosio, rendendo quindi possibile un migliore assorbimento senza gli inconvenienti che provano altre persone. I disturbi intestinali possono essere inoltre molto lievi, specialmente se il consumo di latte o prodotti che contengono lattosio è saltuario e le quantità ingerite non sono grandi. Altre persone ancora sviluppano invece disturbi importanti anche dopo l’assunzione di poco lattosio.A chi sospetta di avere un’intolleranza al lattosio di solito viene prescritto un “breath test” (test del respiro), che viene effettuato a intervalli regolari per un paio di ore dopo aver fatto assumere al paziente del lattosio sciolto in acqua. Se nell’aria espirata viene rilevato un alto tasso di idrogeno, significa che il lattosio non è stato scisso dalla lattasi e ha iniziato a fermentare nell’intestino. I gas che si producono a causa della fermentazione vengono assorbiti dalla mucosa del colon, finiscono nel circolo sanguigno e raggiungono i polmoni, che li eliminano attraverso la respirazione. Vengono poi utilizzati specifici parametri per stabilire se la concentrazione sia tale da essere riconducibile alla mancanza di attività della lattasi.La diagnosi di più casi e la maggiore accessibilità dei test genetici dovrebbe favorire nuove ricerche e studi su come siamo diventati più o meno tolleranti al lattosio a seconda dei casi. Quantità maggiori di dati dovrebbero inoltre facilitare un allargamento degli studi ad altre aree del mondo oltre l’Europa, dove finora si è concentrata la maggior parte delle ricerche, proprio per la presenza di popolazioni in cui l’intolleranza al lattosio è marginale se non quasi del tutto inesistente. Secondo i più critici la grande attenzione al contesto europeo ha portato a trascurare fenomeni che si verificarono migliaia di anni fa in Africa e in Asia, che potrebbero aiutarci a capire meglio il nostro rapporto travagliato, a volte letteralmente, col latte. LEGGI TUTTO