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    Il ritorno dei cavalli selvatici in Asia centrale

    Caricamento playerSette cavalli di Przewalski, appartenenti a quella che si ritiene essere l’ultima varietà di cavalli selvatici ancora esistente, sono stati trasferiti dagli zoo di Berlino e Praga, in Europa, alle steppe del Kazakistan, un grosso paese dell’Asia centrale occupato in gran parte da deserti e pianure che probabilmente è il loro luogo di origine. Fino a pochi anni fa i cavalli di Przewalski vivevano solo in cattività, ma dai primi anni Duemila grazie a una serie di trasferimenti dagli zoo europei ora ne esiste una popolazione libera in Mongolia e in Cina: in Kazakistan vogliono fare lo stesso.
    Il viaggio dei cavalli è durato circa 25 ore: 18 in aereo fino in Kazakistan, e poi altre 7 di camion fino alla zona in cui vivranno per il prossimo anno. Per tutto quel tempo hanno dovuto rimanere in piedi: in teoria dovevano essere trasferiti otto cavalli, ma uno di loro è dovuto rimanere a Praga perché si era seduto prima di salire sull’aereo (rimanere seduti a lungo può causare problemi di circolazione nei cavalli). Ora per circa un anno saranno tenuti sotto osservazione in una riserva di 80 ettari, così da accertarsi che resistano al freddo e ai parassiti e che siano capaci di procurarsi autonomamente da mangiare anche sotto la spessa coltre di neve che cade in inverno da quelle parti.
    Il gruppo è composto da due giumente (cioè femmine adulte di cavallo) e uno stallone (un maschio) provenienti dallo zoo di Praga, e da quattro giumente dallo zoo di Berlino. Inizialmente queste ultime non potranno accoppiarsi con lo stallone, ma è prevista l’introduzione di altri maschi, così da aumentare la diversità genetica della popolazione.
    Cavalli di Przewalski reintrodotti in Russia, mentre vengono nutriti dal presidente russo Vladimir Putin (Alexei Druzhinin/Sputnik, Kremlin Pool Photo via AP)
    I cavalli di Przewalski (Equus ferus przewalskii) sono una specie o quantomeno una sottospecie distinta dal comune cavallo domesticato (Equus ferus caballus), cioè quello che tutti conosciamo, diffuso in tutto il mondo. Anche i cavalli comunemente chiamati “selvatici”, come i mustang degli Stati Uniti, sono in realtà inselvatichiti: discendono cioè da cavalli domestici fuggiti dai loro allevatori. Anche se ora vivono in libertà e non hanno contatti o quasi con gli umani fanno comunque parte della stessa specie, che nella classificazione scientifica è chiamata Equus ferus caballus.
    In realtà c’è chi dice che anche i cavalli di Przewalski siano inselvatichiti. Infatti anche se in tempi recenti non vivevano come animali di allevamento, le tracce archeologiche indicano che alcuni di loro lo furono, più di 5mila anni fa, da una popolazione umana dell’età del rame che viveva nell’attuale Kazakistan.
    Rispetto ai cavalli comuni, quelli di Przewalski sono un po’ più piccoli, hanno la criniera più ispida, e hanno anche due cromosomi in meno, ma sono comunque in grado di produrre prole fertile se si accoppiano con i cavalli comuni. C’è quindi qualche dubbio se classificarli scientificamente come una sottospecie di Equus ferus (come è il cavallo comune, Equus ferus caballus), o considerarla proprio una specie diversa, chiamata Equus przewalskii.

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    In realtà questi cavalli non sono mai stati osservati scientificamente in Kazakistan: da quando sono stati identificati scientificamente come una specie diversa dal cavallo domesticato sono stati visti solo nelle aree desertiche e montane della Mongolia e della Cina. È comunque ritenuto che il loro luogo di origine siano proprio le steppe, le grandi pianure semiaride che si estendono dall’Ucraina alla Mongolia passando anche dal Kazakistan, e che i cavalli selvatici si siano ritirati in aree più inospitali qualche secolo fa, in seguito ai conflitti con esseri umani e bestiame e ai cambiamenti del clima.
    La Mongolia è stata quindi la prima destinazione dei programmi di reintroduzione nel loro habitat originario. Altri programmi sono stati messi in atto nel nordovest della Cina, in Xinjiang, già da prima del 2000, e nella regione russa di Orenburg, al confine con il Kazakistan, nel 2016. Nel 2008 l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN), l’ente internazionale riconosciuto dall’ONU che valuta quali specie animali e vegetali rischiano l’estinzione, ha modificato la classificazione dei cavalli di Przewalski da “estinto in natura” a “in pericolo critico”. Un ulteriore aggiornamento nel 2011 ha portato alla classificazione come “minacciati”.
    Pur essendosi estinti in natura, nel Novecento erano state create popolazioni piuttosto consistenti di cavalli di Przewalski anche in Europa, sia negli zoo che in aree protette più ampie. Ne esiste una nel sud della Francia, molto attiva nel fornire cavalli per i programmi di reintroduzione (una delle giumente mandate in Kazakistan dallo zoo di Berlino è originaria di qui), ma le più grandi sono in Ucraina.
    Una è quella di Askania Nova, nella regione di Kherson, nel sud del paese, la più grande d’Europa. L’altra si trova nella Zona di esclusione di Chernobyl, l’area attorno alla centrale nucleare rimasta disabitata dagli umani dopo il famoso incidente, e diventata nel tempo una sorta di riserva naturale.
    L’Ucraina e il sud della Russia sono peraltro l’ultimo posto in cui sopravvisse una varietà europea di cavallo selvatico: il tarpan, che si estinse alla fine dell’Ottocento. Anche in questo caso l’etichetta di “selvatico” è un po’ dibattuta: è probabile che discendessero da commistioni fra cavalli puramente selvatici e cavalli inselvatichiti. Secondo alcuni il cavallo comune discende proprio da dei tarpan domesticati diversi millenni fa.
    I programmi di reintroduzione dei cavalli di Przewalski avvengono anche all’interno dell’Europa, in habitat diversi da quelli originari dei cavalli. Nel 2023 un gruppo è stato portato dalla Francia agli altopiani della Spagna: l’idea è quella che i cavalli contribuiscano a limitare la diffusione di alcuni cespugli, che in certi casi possono aumentare il rischio di incendi. Prima lo facevano le pecore, che però sono diminuite con il depopolamento rurale e il declino della pastorizia.
    Anche nelle steppe la reintroduzione del cavallo selvatico dovrebbe portare diversi benefici ecologici. Filip Mašek, portavoce dello zoo di Praga, ha detto al Guardian che i cavalli disperdono i semi delle piante scavando con gli zoccoli il terreno per procurarsi da mangiare, e anche nella loro cacca. Il loro letame inoltre contribuisce a fertilizzare il terreno. Insomma per quanto la reintroduzione artificiale di specie estinte in una certa area abbia sempre il potenziale di creare squilibri in un ecosistema, la reintroduzione dei cavalli nella steppa kazaka potrebbe portare benefici più ampi di quelli riguardanti la singola specie.

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    Il problema nello studiare gli psichedelici

    Martedì scorso la Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia governativa di regolamentazione dei farmaci e del cibo negli Stati Uniti, ha giudicato insufficienti le prove presentate dall’azienda statunitense Lykos Therapeutics per sollecitare l’approvazione di una medicina a base di Mdma, la sostanza psicoattiva nota anche come ecstasy, per la cura del disturbo da stress post-traumatico (PTSD). La notizia ha sorpreso diversi osservatori, perché le prove esaminate erano due studi clinici rigorosi: nessuno dei due dimostra l’efficacia della terapia, secondo il comitato consultivo della FDA, perché i rischi supererebbero i benefici.Da diversi anni la cura di alcune malattie mentali come il PTSD e la depressione attraverso gli psichedelici è oggetto di studi incoraggianti e investimenti cospicui. Per la cura del PTSD, un disturbo che riguarda circa il 3,9 per cento della popolazione mondiale e circa 13 milioni di persone solo negli Stati Uniti, la terapia a base di Mdma è peraltro già disponibile in Australia. Ma il giudizio espresso dalla FDA, ha scritto il New York Times, ha attirato una certa attenzione verso un limite degli studi su queste sostanze: il fatto che difficilmente una persona può avere il ragionevole dubbio di aver preso un placebo anziché uno psichedelico.
    L’Mdma non è propriamente uno psichedelico, perché ha effetti soprattutto stimolanti, diversi da quelli di sostanze come l’Lsd o la psilocibina. Appartiene però a una classe farmacologica che include anche sostanze che alterano le capacità sensoriali, e condivide con gli psichedelici diversi aspetti socioculturali relativi all’uso. Gli studi esaminati dalla FDA, come tutti quelli solitamente più attendibili e citati, erano studi controllati randomizzati (randomized controlled trial, RCT), cioè il tipo di studio clinico più adatto a ridurre pregiudizi e distorsioni nella valutazione dei risultati della sperimentazione di una cura. In pratica le persone che partecipano agli studi di questo tipo vengono assegnate casualmente o a un gruppo che riceve il trattamento oggetto della sperimentazione, o a un gruppo che riceve un placebo. Se lo studio è “cieco”, le persone non sanno se sono state assegnate a un gruppo o a un altro (e se è “doppio cieco”, non lo sanno nemmeno gli sperimentatori).

    – Leggi anche: Le aziende che sviluppano farmaci a base di sostanze psichedeliche vanno forte in borsa

    Negli studi sottoposti all’attenzione del comitato consultivo della FDA il campione di partecipanti era formato da persone da tempo malate di PTSD. La sperimentazione prevedeva che tutte si sottoponessero a sessioni di terapia cognitivo-comportamentale intensiva, uno degli approcci di psicoterapia più diffusi, e che durante la terapia un gruppo di partecipanti assumesse il farmaco a base di Mdma e l’altro gruppo un placebo. I risultati mostrarono che le persone del primo gruppo avevano il doppio delle probabilità di guarire dal PTSD rispetto alle persone del secondo gruppo.
    Ma il problema degli studi controllati randomizzati nel caso degli psichedelici, come ha sintetizzato l’Atlantic, è che «praticamente nessuno può assumere una sostanza psichedelica e non saperlo». Secondo alcuni studiosi il fatto che non sia possibile condurre un RCT sugli psichedelici davvero in cieco rischia di indebolire le numerose prove dell’efficacia delle terapie che circolano ormai da anni. Perché impedisce ai ricercatori di sapere se quelle prove sono valide o sono condizionate dalle grandi aspettative delle persone riguardo alla potenza degli psichedelici. Altri sostengono che tutte le sostanze psicoattive – non soltanto gli psichedelici – siano un caso utile a mostrare i limiti degli RCT in generale, quando è necessario valutare cure che agiscono sulla mente.
    Fin dagli anni Sessanta gli studi controllati randomizzati sono considerati in ambito clinico il miglior metodo per escludere che alla base del miglioramento delle condizioni di persone a cui viene somministrato un certo farmaco ci siano ragioni non farmacologiche. Una delle ragioni più note è l’effetto placebo: la fiducia del paziente in sostanze e trattamenti presentati come risolutivi di un certo problema, indipendentemente dalla loro efficacia reale. Se il paziente ha aspettative altissime su un farmaco – come alcuni pensano succeda nel caso di molti studi sugli psichedelici – sapere di averlo ricevuto può indurre reazioni positive, e sapere che non lo ha ricevuto può indurre reazioni negative.
    Il problema è che negli studi clinici sulle medicine antitumorali, per dire, i partecipanti non percepiscono la differenza tra una flebo di soluzione salina e una di medicina. Ma le sostanze psichedeliche inducono alterazioni percettive come distorsioni visive (immagini caleidoscopiche e particolari pattern sulle superfici) e sensazione alterata del passare del tempo: tutte cose di cui è praticamente impossibile non accorgersi. Anche negli studi clinici sull’Mdma condotti da Lykos Therapeutics, sebbene gli effetti dell’Mdma siano diversi da quelli degli psichedelici, tutti i partecipanti hanno infatti indovinato in poco tempo a quale gruppo erano stati assegnati. «Credo sia ovvio che gli RCT non sono adatti allo studio delle sostanze psichedeliche», ha detto all’Atlantic Boris Heifets, neuroscienziato della Stanford University.

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    Per provare ad aggirare il problema alcuni ricercatori stanno cercando di strutturare gli studi in modo diverso. Uno studio in cieco sulle possibili proprietà antidepressive della ketamina pubblicato nel 2023, per esempio, prevedeva di somministrare il farmaco (o un placebo) a pazienti depressi tenuti al buio e anestetizzati, durante un intervento chirurgico programmato. Altri studi sull’Mdma hanno utilizzato come placebo sostanze diverse da quella oggetto di studio. Ma altri studiosi sostengono che il tentativo di elaborare studi in cieco adatti alla sperimentazione degli psichedelici, per quanto ingegnoso, trascuri il fatto che queste sostanze non sono riducibili alla loro azione biochimica. E la loro efficacia dipende proprio da quel contesto che alcuni ricercatori si sforzano di separare dagli effetti.
    La maggior parte dei protocolli delle attuali terapie psichedeliche prevedono infatti diverse sessioni di psicoterapia, prima, durante e dopo il trattamento. E fin dalle prime ricerche sugli psichedelici condotte negli anni Sessanta è noto che sia il contesto in cui le persone li assumono sia le loro aspettative possono fortemente influenzare la loro esperienza, come dimostrano anche ricerche più recenti. Uno studio clinico uscito a gennaio, per quanto limitato nel campione, ha mostrato che in un gruppo di 22 pazienti con PTSD sottoposti a psicoterapia e Mdma l’efficacia del trattamento dipendeva strettamente dalla forza del legame che si instaurava tra il terapeuta e il paziente.
    È molto probabile che nella sperimentazione clinica gli studi controllati randomizzati continueranno a essere considerati il gold standard, per la valutazione delle sostanze psicoattive come di qualsiasi altra sostanza. Ma questo non significa che non sia possibile ricavare altre informazioni altrettanto utili da studi condotti con metodi diversi da quello degli RCT, ha detto all’Atlantic Matt Butler, neuroscienziato del King’s College di Londra. Diversi ricercatori stanno già conducendo, per esempio, studi descrittivi che misurano sia le aspettative che gli effetti dei trattamenti, in cui i partecipanti sanno chiaramente quale sostanza stanno assumendo. LEGGI TUTTO

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    Come fanno i pitoni a digerire corpi umani interi

    Venerdì scorso in Indonesia il corpo di una donna di 45 anni, scomparsa da un giorno, è stato trovato nello stomaco di un pitone lungo cinque metri. È successo vicino al villaggio di Kalempang, nella regione di Sulawesi Meridionale. È raro che i grandi serpenti che vivono in foreste tropicali attacchino le persone, ma negli ultimi anni ci sono stati altri casi, sempre sull’isola di Sulawesi. L’anno scorso un pitone di 8 metri era stato ucciso mentre stritolava un agricoltore. Nel 2018 un altro pitone, di 7 metri, aveva ingoiato una donna di 54 anni e l’anno precedente era successo a un 25enne con un serpente di 4 metri.Secondo David Penning, professore associato di Biologia della Missouri Southern State University che in passato aveva discusso di questi casi con il sito di divulgazione scientifica Live Science, «accade probabilmente più spesso che ci siano incidenti con pitoni e boa tra le persone che ne tengono in casa senza le misure di sicurezza necessarie», ma è possibile che con l’aumento della deforestazione e la conseguente riduzione dell’habitat naturale di questi animali gli attacchi letali aumentino. In Indonesia così come in altri paesi tropicali ci sono comunità di persone che vivono in zone rurali molto vicine alle foreste.
    È probabile che il pitone che ha ucciso la donna di Kalempang fosse un pitone reticolato (Malayopython reticulatus), la specie di serpenti che raggiunge le lunghezze maggiori nel mondo. Vivono in molti paesi del Sud-Est asiatico e non sono velenosi. Uccidono le proprie prede facendo loro degli agguati e poi avvolgendosi attorno al loro corpo: non le soffocano, ma stritolandole ne bloccano la circolazione del sangue causando un arresto cardiaco, e conseguentemente la morte. Gli individui più piccoli mangiano soprattutto roditori, ma anche pipistrelli, mentre i serpenti più grossi predano mammiferi di dimensioni maggiori, comprese scimmie, suini e cervi, oltre ad animali di allevamento o domestici.
    Riescono a ingoiare prede anche molto grosse rispetto alla propria massa corporea, che ingeriscono intere. Sono in grado di aprire moltissimo le proprie mascelle grazie a legamenti molto flessibili e di solito ingoiano le prede a partire dalla testa. I corpi umani sono particolarmente complessi da ingerire per via della forma delle spalle, più larghe della testa, ma se una persona non è molto alta, come si è visto a Sulawesi, i pitoni reticolati più grandi possono effettivamente riuscire a ingoiarla.
    La più stupefacente caratteristica dei pitoni reticolati e di altre specie di pitoni e serpenti è la capacità del loro stomaco di digerire le grosse prede ingoiate intere (vestiti inclusi, nel caso delle persone). Per farlo rimodellano il proprio apparato digestivo, ingrandendo sia lo stomaco che l’intestino, che durante i periodi di digiuno occupano pochissimo spazio nel loro corpo. Ma soprattutto producono una grande quantità di succhi gastrici molto acidi (quelli che anche negli umani servono a disgregare il pasto in sostanze più semplici) che permettono di scomporre una preda che non è stata masticata e che, in alcuni casi, può avere un peso simile a quello del serpente che l’ha ingerita. Per quanto riguarda l’intestino, le cellule sulle sue pareti si allungano fino a quattro volte, per assorbire zuccheri e altre sostanze nutritive dal cibo già passato dallo stomaco.
    Nel processo digestivo aumentano anche le dimensioni del cuore del serpente – la crescita può essere del 40 per cento – per pompare più sangue e aumentare così la circolazione di ossigeno nel corpo: complessivamente c’è un grosso aumento dell’attività metabolica. Crescono anche le dimensioni di altri organi, come il fegato e i reni. Questo grosso dispendio di energie, compensato dalla digestione della preda, è comunque raro nella vita dei pitoni: dopo aver digerito un grosso animale possono passare anche vari mesi senza mangiare, contando unicamente sull’energia ricavata dal pasto precedente.
    Il pitone che ha ucciso la donna di Kalempang è stato trovato dagli abitanti del villaggio poco lontano da dove la donna era stata vista l’ultima volta, intento a digerire. L’ingrossamento del suo corpo ha fatto intuire cosa fosse successo: il pitone è stato ucciso e tagliato per recuperare i resti della donna. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Ogni anno, a giugno, nel nord-ovest del Regno Unito si svolge la fiera dei cavalli di Appleby: in Cumbria, vicino al fiume Eden, si riuniscono migliaia di persone che fanno una vita nomade per comprare e vendere cavalli, incontrare amici o parenti e più in generale celebrare il loro stile di vita. Da lì viene la foto di questo cavallo davanti alle carovane, tra gli animali da fotografare in settimana insieme a un piccione che ha fatto incursione sul campo del Roland Garros, leoni al parco nazionale del Lago Nakuru in Kenya, una marmotta a Montréal, un lamantino a pancia all’aria in Florida e una lince che ha tentato una fuga in Germania. LEGGI TUTTO

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    Si fa presto a dire test di Turing

    Caricamento playerL’8 giugno di settant’anni fa Alan Turing fu trovato morto nella propria casa di Wilmslow, in Inghilterra, dalla sua governante. Le analisi sul suo corpo portarono alla conclusione che uno dei più brillanti pionieri dell’informatica fosse morto il giorno prima – il 7 giugno – a causa di un avvelenamento da cianuro. Vicino al suo corpo c’era una mela mangiata a metà: si ipotizzò che Turing l’avesse usata per mascherare il sapore del veleno, ma non fu mai analizzata per verificare se contenesse tracce di cianuro. Turing morì dopo un periodo di grandi difficoltà, definito dalle leggi dell’epoca un criminale per la propria omosessualità e sottoposto alla castrazione chimica, dopo aver dato un contributo fondamentale all’informatica e allo sviluppo del concetto di “intelligenza artificiale”.
    Solo nel 2009, a più di mezzo secolo dalla sua morte, il governo britannico espresse il proprio rammarico per il trattamento riservato a Turing, così come alle migliaia di altre persone condannate per la loro omosessualità. Furono poi necessari altri quattro anni prima che la regina Elisabetta II concedesse a Turing una grazia postuma, riconoscendo il suo importante contributo per il progresso e la pace, soprattutto in un periodo drammatico come quello della Seconda guerra mondiale.
    Turing fu infatti uno dei protagonisti delle decodifica dei messaggi realizzati con Enigma, la macchina sviluppata dai nazisti per comunicare in codice e organizzare gli attacchi soprattutto contro i sottomarini degli Alleati, come raccontato nel film The Imitation Game con Benedict Cumberbatch. Ma il contributo più grande di Turing fu nello studio e nelle riflessioni intorno al rapporto tra gli esseri umani e le macchine, in un periodo in cui l’informatica per come la intendiamo oggi era agli albori e gli scenari in cui i computer avrebbero risolto molti dei nostri problemi sembravano ancora da fantascienza.
    Prima della Seconda guerra mondiale e di Enigma, Turing immaginò nei suoi studi una macchina in grado di svolgere qualsiasi compito, prospettando caratteristiche e funzionamenti non molto lontani da quelli dei computer che usiamo ogni giorno, smartphone compresi. Turing riteneva che la sua ipotetica macchina sarebbe stata in grado di rispondere a specifiche esigenze, a patto di fornirle un programma adeguato per farlo.
    Ma Turing era soprattutto affascinato dalla possibilità che un giorno le macchine potessero diventare sofisticate al punto da sembrare umane. Illustrò l’idea in un articolo pubblicato nel 1950 sulla rivista accademica Mind, descrivendo un esperimento per mettere alla prova un sistema artificiale in una conversazione tra esseri umani.
    Fin dall’inizio dell’articolo Turing chiariva la difficoltà del problema: «Propongo di prendere in considerazione la seguente questione: “Le macchine possono pensare?”». La riflessione proseguiva segnalando come fosse difficile definire il concetto stesso di “pensare”, arrivando alla proposta di un gioco-test basato per lo più sul linguaggio da considerare come un’espressione di intelligenza.
    Una versione di Enigma (Getty Images)
    Nel corso del tempo sarebbero state elaborate varie versioni del test, oggi noto come “Test di Turing” dal nome del suo inventore, ma ci sono spesso elementi comuni. Nel test un valutatore deve essere in grado di distinguere veri interlocutori da un interlocutore artificiale, naturalmente senza poterli vedere e sapendo che uno di loro è una macchina. Il sistema artificiale supera la prova se il valutatore non riesce a distinguerlo dagli esseri umani.
    Nonostante fosse stato presentato in un articolo in parte speculativo e “minore” rispetto ad altre ricerche svolte da Turing – e non fosse definito esplicitamente come un modo per misurare l’intelligenza di un sistema – il test che porta il suo nome sarebbe diventato negli anni un importante punto di riferimento per chi si occupa di informatica e di sistemi di intelligenza artificiale. A oltre 70 anni dalla sua pubblicazione, si discute ancora oggi sulla possibilità che una macchina sviluppi una propria coscienza, tale da consentirle di articolare un pensiero e di averne consapevolezza.
    Nel corso del tempo il test di Turing avrebbe ricevuto diverse critiche per una certa ingenuità, dimostrata dal fatto che alcuni dei vincoli previsti possono essere facilmente aggirati per dare l’illusione al valutatore di avere effettivamente a che fare con un essere umano, anche se sta interagendo con una macchina fortemente limitata ma programmata per nascondere i propri limiti. Anche per questo motivo nacquero test alternativi, pur basati sugli assunti di Turing.
    ELIZA, un programma sviluppato negli anni Sessanta negli Stati Uniti, dava risposte all’apparenza “intelligenti” imitando uno psicologo. Il sistema suggeriva con una certa frequenza ai propri interlocutori umani di riflettere sulle loro affermazioni, proprio come avrebbe fatto un terapista, semplicemente componendo le proprie frasi in domande che contenevano parte delle risposte appena ricevute. Secondo alcuni parametri, ELIZA superava il test e in un recente studio ha anche battuto una delle versioni di GPT, il sistema di intelligenza artificiale che fa funzionare il famoso ChatGPT.
    Che un sistema concepito 60 anni fa, quando i computer avevano una frazione della capacità di calcolo di quelli attuali, ne abbia superato uno recentissimo e molto discusso proprio per le sue capacità si spiega col fatto che non esiste un’unica versione formalizzata del test. L’idea di base è quella che fu esposta da Alan Turing a metà Novecento, ma i modi in cui viene effettuato il test possono variare sensibilmente in base ai criteri scelti dai gruppi di ricerca che se ne occupano.
    Essendo il sistema più conosciuto e studiato degli ultimi anni, ChatGPT è finito al centro di molte sperimentazioni anche tese a verificare la sua capacità di produrre conversazioni così verosimili da poter essere scambiate per quelle prodotte da un essere umano.
    Nel luglio del 2023 un articolo pubblicato su Nature ha segnalato il superamento del test di Turing da parte di ChatGPT, pur evidenziando come rimangano irrisolti molti problemi legati al produrre sistemi che siano effettivamente in grado di ragionare. Alcuni particolari sistemi di AI come ChatGPT sono basati su modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM) per la generazione di testi, che prevedono le parole da utilizzare man mano che scrivono una frase senza che abbiano una consapevolezza di ciò che stanno facendo (per alcuni esperti è un problema secondario, nel momento in cui una AI svolge comunque efficacemente il compito che le è stato assegnato).
    A inizio 2024 un altro studio, pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences, ha segnalato come la versione all’epoca più recente di ChatGPT producesse conversazioni non distinguibili da quelle dei suoi interlocutori umani, rivelando le proprie origini artificiali solo nel caso di risposte orientate in modo più marcato alla cooperazione e all’altruismo. La sperimentazione era stata effettuata basandosi su una serie di test solitamente somministrati per verificare la personalità e le scelte in particolari scenari, di tipo etico ed economico. Secondo il gruppo di ricerca, lo studio dimostra uno dei primi casi in cui una intelligenza artificiale ha superato «un rigoroso test di Turing», ma per alcune delle risposte fornite «non avrebbe probabilmente guadagnato molti amici».
    L’esperimento non può comunque essere considerato definitivo, visto che la questione del test di Turing e più in generale della capacità delle macchine di pensare è ancora ampiamente discussa tra chi si occupa di filosofia, di informatica e di matematica. La proposta di Turing non era del resto orientata a dare risposte, ma a fare domande: non aveva pensato il proprio test come una prova di intelligenza e umanità, ma come un gioco, una gara di imitazione. Lo immaginò in un’epoca molto diversa dalla nostra, dove sarebbe stato già sorprendente di per sé avere un programma che risponde a delle domande ed è in grado di portare avanti una conversazione.
    Oggi sappiamo che quei sistemi esistono, sono ormai nella nostra vita di tutti i giorni, ma sappiamo anche che non hanno consapevolezza di sé e che non “pensano”. E quando arriviamo a quest’ultima conclusione, ci interroghiamo su che cosa significhi davvero “pensare”, un concetto per nulla banale e sul quale si ragiona e specula praticamente da sempre. Turing era consapevole dell’impossibilità di dare una risposta convincente alla definizione di quel concetto, ancor prima di applicarlo alle macchine.
    Una statua dedicata ad Alan Turing a Manchester, Regno Unito (Getty Images)
    Di certo Turing avrebbe osservato con interesse i progressi raggiunti nel campo delle AI negli ultimi anni, visto che già nel suo articolo del 1950 ammetteva che «Le macchine mi sorprendono con grande frequenza», aggiungendo poi:
    L’idea che le macchine non possano suscitare sorprese è dovuta, a mio avviso, a un errore a cui sono particolarmente soggetti filosofi e matematici. Deriva dal presupposto che non appena un fatto viene presentato a una mente, tutte le conseguenze di quel fatto affiorano nella mente simultaneamente con esso. È un presupposto molto utile in molte circostanze, ma si dimentica troppo facilmente che è falso. Una conseguenza naturale di ciò è che si presuppone che non vi sia alcuna virtù nel mero elaborare conseguenze partendo da dati e principi generali.
    Alan Turing morì a 41 anni in circostanze mai completamente chiarite e che ancora oggi lasciano aperte molte domande. Due anni prima della sua morte, la polizia stava indagando su un furto avvenuto nella sua casa e Turing ammise di avere avuto una relazione fisica con un uomo, che gli aveva riferito di conoscere l’identità di chi aveva commesso il furto e che sarebbe stato quindi utile alle indagini. Nel marzo del 1952 Turing fu accusato di «grave indecenza e perversione sessuale» e si dichiarò colpevole e fu condannato alla castrazione chimica attraverso l’assunzione di estrogeni. La condanna per omosessualità comportò la fine dell’accesso da parte di Turing ai documenti e alle attività governative secretate, per esempio legate alle attività di intelligence durante la Guerra Fredda, nonostante pochi anni prima avesse dato un contributo importante nel decifrare i messaggi di Enigma.
    Il corpo di Alan Turing fu cremato due giorni dopo la morte e le ceneri furono disperse nel giardino del crematorio, nel punto in cui anni prima erano state disperse le ceneri di suo padre.
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    Dove chiedere aiutoSe sei in una situazione di emergenza, chiama il numero 112. Se tu o qualcuno che conosci ha dei pensieri suicidi, puoi chiamare il Telefono Amico allo 02 2327 2327 oppure via internet da qui, tutti i giorni dalle 10 alle 24.Puoi anche chiamare l’associazione Samaritans al numero 06 77208977, tutti i giorni dalle 13 alle 22. LEGGI TUTTO

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    Mi tana es tu tana

    Caricamento playerDurante i grandi incendi tra il 2019 e il 2020 nel sud-est dell’Australia, sui social network e su alcuni giornali australiani si diffusero notizie sul comportamento virtuoso e altruistico dei vombati, ben disposti a raccogliere e ad accogliere animali di piccola taglia nelle loro tane sotterranee per proteggerli dal calore prodotto dalle fiamme.
    Dai racconti sembrava che i vombati avessero scelto volontariamente di aiutare gli altri animali, tanto che il loro comportamento fu definito “eroico”, cosa che non era vera e che tendeva a umanizzare il comportamento di una specie diversa dalla nostra. Di vero c’era però che alcune tane erano state comunque utilizzate come rifugio da altri animali, al punto da indurre un gruppo di ricerca ad approfondire la questione.
    I vombati sono nativi dell’Australia, assomigliano a grandi marmotte e a seconda delle specie da adulti possono arrivare fino a un metro di lunghezza e pesare tra i 20 e i 35 chilogrammi. Sono marsupiali erbivori, producono feci cubiche e hanno un metabolismo estremamente lento, che li aiuta a sopravvivere in condizioni aride o durante periodi in cui è più difficile trovare il cibo, come avviene nel corso degli incendi stagionali. Utilizzando i piccoli artigli sulle zampe e i denti resistenti, simili a quelli dei roditori, i vombati costruiscono tane sotterranee con reti intricate di tunnel che le mettono in collegamento, dove si riparano dai predatori e vivono al fresco.
    Quando tra il 2019 e il 2020 si svilupparono i grandi incendi nell’Australia sud orientale e iniziarono a circolare le notizie sulle presunte pratiche di accoglienza dei vombati, un gruppo di ricerca australiano iniziò a organizzare uno studio per capire come stessero effettivamente le cose. Nell’estate del 2021 alcuni ricercatori raggiunsero le zone del Woomargama National Park e in particolare della Woomargama State Forest, aree naturali coinvolte negli incendi degli anni precedenti. Posizionarono una trentina di fototrappole (fotocamere che si attivano al passaggio di qualcosa e che possono riprendere anche di notte utilizzando gli infrarossi) all’ingresso e all’interno di alcune tane dei vombati effettuando osservazioni per quasi un anno, fino all’aprile del 2022.
    Come racconta lo studio da poco pubblicato sul Journal of Mammalogy, le fototrappole hanno permesso di osservare un notevole traffico di altri animali intorno e nelle tane scavate dai vombati. Sono state contate più di cinquanta specie di vertebrati tra roditori, rettili e perfino qualche specie di uccello. La presenza di alcune di queste specie è stata osservata con maggiore frequenza in prossimità delle tane rispetto ad altre zone in cui non erano presenti gli ingressi ai tunnel.
    Frequentazione delle tane dei vombati da parte di altre specie (Journal of Mammalogy)
    Il gruppo di ricerca ha inoltre notato una certa preferenza da parte degli animali ospiti dei vombati per le tane presenti nelle zone dove gli incendi erano stati più distruttivi. Altri animali di taglia più grande, come canguri e wallaby (marsupiali simili ai canguri), si sono invece tenuti alla larga dalle tane, salvo queste non fossero allagate e offrissero allora un’opportunità di trovare refrigerio. I vombati possono essere del resto piuttosto aggressivi con gli invasori che ritengono essere una minaccia per i loro gruppi, mentre evidentemente non si curano più di tanto degli altri frequentatori occasionali delle loro tane e che ritengono innocui.
    Le tane dei vombati possono durare decenni e potenzialmente potrebbero offrire rifugio ad animali di specie diverse per un grande numero di generazioni. Secondo il gruppo di ricerca il fenomeno indica come le interazioni tra specie possano essere ancora più articolate e complesse di quanto finora osservato, soprattutto in contesti in cui viene attuata una coesistenza tutto sommato pacifica. Al tempo stesso, la ricerca mette sotto un’altra prospettiva il mito sulla presunta ospitalità dei vombati circolata negli anni scorsi, ricordando l’importanza di non proiettare sulle altre specie comportamenti tipicamente umani. LEGGI TUTTO

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    Un nuovo successo per Starship

    Caricamento playerStarship, l’enorme astronave della società spaziale privata statunitense SpaceX, è tornata per la prima volta intera sulla Terra dopo un lancio sperimentale. Il lancio è avvenuto dalla base di Boca Chica, in Texas, senza equipaggio ed è considerato un nuovo importante progresso dopo i miglioramenti ottenuti con i tre test svolti in precedenza. SpaceX deve comunque effettuare ancora molti lanci prima di poter gestire i viaggi verso la Luna, come previsto dagli accordi con la NASA.

    SpaceX lavora a Starship da una decina di anni con l’obiettivo di sviluppare un sistema di lancio e un’astronave molto più potenti dei razzi che attualmente utilizza per portare satelliti in orbita ed equipaggi verso la Stazione Spaziale Internazionale. Oltre al contratto miliardario con la NASA, che vincola l’azienda ai piani lunari, SpaceX ha in programma di utilizzare Starship per trasportare in orbita satelliti e per far raggiungere un giorno agli astronauti Marte, il progetto più ambizioso di Elon Musk, il CEO della società e capo di Tesla e X.
    Il lancio è avvenuto alle 14:50 (ora italiana) con la grande astronave alta 50 metri che ha superato l’atmosfera, spinta da Super Heavy, il razzo alto 70 metri e dotato di 33 motori alimentati a ossigeno liquido e metano liquido. Il precedente volo sperimentale di Starship era avvenuto il 14 marzo scorso.
    Raggiunto l’ambiente spaziale, Super Heavy si è separato da Starship e ha avviato una manovra per tornare verso la Terra. A poche migliaia di metri dalle acque del Golfo del Messico, il razzo ha riacceso i motori per effettuare un ammaraggio controllato in assetto verticale. Non era mai accaduto prima che Super Heavy tornasse integro sulla Terra, uno dei principali progressi rispetto al test sperimentale dello scorso marzo quando si era distrutto nelle fasi di rientro.
    Starship inquadrata dal lato dello scudo termico (nero), montata sopra Super Heavy sulla rampa di lancio (SpaceX)
    Oggi come a marzo, SpaceX non aveva intenzione di recuperare né Super Heavy né Starship, ma sperimentare rientri meno traumatici è essenziale per mettere a punto le prossime versioni del sistema, quando sia il razzo sia l’astronave saranno riutilizzabili per più lanci.
    Il lancio di oggi aveva diverse somiglianze con il test dello scorso marzo, anche se SpaceX ha rivisto alcuni obiettivi, rinunciando per esempio ai test di riaccensione nell’ambiente spaziale di alcuni motori di Starship. L’obiettivo principale era riuscire a governare l’astronave, in modo che si potesse orientare nel modo corretto per effettuare il rientro circa 50 minuti dopo il lancio, resistendo alle temperature fino a 1.400 °C che si sviluppano a causa dell’interazione con l’atmosfera.
    L’astronave è protetta da 18mila piastrelle di ceramica esagonali, ciascuna grande più o meno quanto un piatto, e il test serviva per verificare la loro resistenza e soprattutto la capacità di rimanere saldamente attaccate al resto dell’astronave.
    Il piano di manovra di Starship per il lancio sperimentale di oggi (SpaceX)
    Starship è rientrata nell’atmosfera in assetto orizzontale e ha poi terminato il proprio viaggio nell’oceano Indiano. Per quanto malconcia a causa delle forti sollecitazioni subite durante il rientro, quando si trovava a poca distanza dall’acqua Starship ha acceso i motori per compiere un’ultima manovra e mettersi nuovamente in assetto verticale in modo da rallentare la discesa prima del contatto con l’oceano. Non era mai successo prima che l’astronave riuscisse a raggiungere l’acqua: nel test dello scorso marzo si era disintegrata durante il rientro.

    SpaceX ha in più occasioni ricordato che in questa fase i lanci sono semplicemente dei test, cioè un modo per sperimentare un sistema mai utilizzato prima e raccogliere una grande quantità di dati, che saranno utilizzati per i futuri lanci. LEGGI TUTTO

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    La capsula spaziale Starliner ha effettuato il suo primo lancio con astronauti a bordo

    Poco prima delle 17 (ora italiana) la capsula spaziale Starliner di Boeing è partita per la prima volta dalla base di lancio di Cape Canaveral negli Stati Uniti con due astronauti della NASA a bordo, dopo alcuni rinvii nelle settimane scorse dovuti a problemi tecnici di vario tipo. Starliner è stata trasportata oltre l’atmosfera terrestre da un razzo Atlas V di United Launch Alliance e nelle prossime ore raggiungerà la Stazione Spaziale Internazionale (ISS).A bordo di Starliner ci sono: Barry E. Wilmore, che ha 61 anni ed è al proprio terzo lancio, e Sunita L. Williams che di anni ne ha 58 ed è alla terza esperienza nello Spazio. Raggiunta la ISS, i due astronauti rimarranno a bordo per una settimana circa, in compagnia dell’equipaggio che svolge missioni di lunga permanenza sulla Stazione, poi torneranno su Starliner per raggiungere nuovamente la Terra.
    Il test serve per verificare i sistemi di lancio della capsula, quelli di attracco e quelli di atterraggio, in modo da ricevere le certificazioni finali da parte della NASA per diventare ufficialmente uno dei veicoli privati da impiegare per trasportare persone e materiale verso e dalla Stazione Spaziale Internazionale. Attualmente per queste attività la NASA può fare affidamento solamente su SpaceX, la società spaziale privata di Elon Musk, e sui sistemi di lancio Soyuz dell’Agenzia spaziale russa (Roscosmos). LEGGI TUTTO