More stories

  • in

    Natixis, Generali avanti a testa bassa

    Luce verde anche del consiglio d’amministrazione delle Generali alla joint venture con la francese Natixis. Il protocollo d’intesa sarà presentato questa mattina al mercato dall’amministratore delegato del Leone Philippe Donnet e da Nicolas Namias, omologo in Bpce, il gruppo transalpino delle banche popolari che controlla Natixis. Ieri, nel primo pomeriggio, il board si è riunito per prendere in esame l’operazione, dopo che il Comitato investimenti di domenica aveva dato parere favorevole in modo non unanime: il consigliere Stefano Marsaglia, espressione della lista di minoranza sostenuta da Delfin e Caltagirone, si è infatti espresso per il «no». E ieri, durante il consiglio fiume durato diverse ore, si è riproposto lo scontro con i consiglieri della lista di minoranza (della quale fanno parte anche il ceo di Enel, Flavio Cattaneo, e la professoressa Marina Brogi) che insieme a Marsaglia hanno votato contro.Sul progetto perseguito da Donnet è peraltro piovuta una lettera piuttosto pesante del collegio sindacale, presieduto da Carlo Schiavone, che nel pomeriggio di domenica, prima dell’inizio del Comitato investimenti, ha fatto notare «i tempi stretti» con i quali si sta chiedendo al cda di approvare l’operazione, missiva che è rimbalzata sul tavolo di ieri. Il suggerimento implicito di frenare sull’operazione è però stato respinto in quanto della trattativa si sta parlando da qualche mese (la notizia è effettivamente finita sui giornali da novembre), sebbene i contorni della joint venture sono stati comunicati al consiglio di amministrazione solo domenica. Un’osservazione pienamente condivisa da tutti i membri del collegio sindacale che quindi sembra avere tutti gli estremi per attirare l’attenzione della Consob che potrebbe, a questo punto, decidere di avviare un’indagine sulla fretta del cda. Del resto, se anche l’operazione fosse stata accennata per sommi capi in precedenza, ciò che in questi casi contano sono le comunicazioni formali, come quelle fornite durante il Comitato investimenti allargato di domenica e nel consiglio di amministrazione di ieri.Resta lo stupore per la tempistica frettolosa con la quale il cda vuole chiudere l’operazione. Soprattutto perché in aprile è in calendario il rinnovo del board stesso e soprattutto dell’amministratore delegato: un’operazione di dimensioni tanto importanti, che prevede lo spostamento in altra piattaforma (presumibilmente fuori dall’Italia) di risparmi gestiti per 650 miliardi, pretenderebbe una governance consolidata e l’accordo con i principali azionisti oltre che una valutazione condivisa con il governo.Intanto, proprio l’imprenditore Francesco Gaetano Caltagirone (cui fa capo il 6,9% delle Generali) e la Delfin guidata da Francesco Milleri (con il 9,9%) continuano a nutrire forti dubbi su molti aspetti dell’alleanza con Natixis: per quanto la governance della nuova piattaforma sia apparentemente paritaria e, sulla carta senza diritti speciali per i due soci, l’amministratore delegato sarà scelto da Generali solo per i primi cinque anni, poi il testimone è previsto che passi nelle mani di Natixis. E se consideriamo che in quei 650 miliardi figurano anche le risorse del fondo Cometa dei metalmeccanici e i risparmi dei lavoratori delle Poste (entrambi sono clienti di Generali Investments), ben si comprende l’ansia che circola nei palazzi istituzionali.Ciò detto, oggi ne sapremo certamente di più, visto che si avranno le comunicazioni ufficiali. Che però probabilmente non spiegheranno perché – se è vero che l’operazione è stata concepita a Trieste, Donnet si sia rivolto anche a Mediobanca – da sempre dominus delle Generali con il 12,3% del capitale – per avere assistenza quale advisor. Aprendo così il varco a ogni possibile speculazione sul vero ruolo della merchant bank milanese. LEGGI TUTTO

  • in

    Generali-Natixis, via libera dal comitato investimenti

    Ascolta ora

    Il comitato per gli investimenti di Generali ieri ha espresso un orientamento favorevole in merito all’operazione che porterà ad un’integrazione con Natixis nel risparmio gestito. È quanto emerge al termine della riunione, durata più di quattro ore, dell’organo del Leone di Trieste competente a formulare pareri in merito alle operazioni di controvalore superiore ai 250 milioni di euro. Un esito scontato, dopo che l’operazione era stata cesellata per mesi e seguita in prima persona dal ceo Philippe Donnet (nella foto). Il comitato – dove siedono la presidente Antonella Mei-Pochtler, l’ex ceo della Borsa di Londra, Clara Furse, il banchiere d’affari Stefano Marsaglia, la manager Alessia Falsarone, il presidente di De Agostini, Lorenzo Pelliccioli, e il dirigente di Mediobanca, Clemente Rebecchini – per l’occasione è stato allargato anche agli altri consiglieri d’amministrazione del Leone di Trieste. Anche perché due soci di peso della compagnia – come l’imprenditore Francesco Gaetano Caltagirone con il 6,9% e la Delfin guidata da Francesco Milleri con il 9,9% – hanno espresso pesanti perplessità circa l’eventualità che 650 miliardi di gestito di Generali Investments (che verranno alimentati da un’ulteriore quota di raccolta netta annuale del Leone, 1.200 i miliardi conferiti da Natixis) possano finire in mani non italiane. Potenzialmente comporterebbe che decine e decine di miliardi di risparmi tricolori possano essere sottratti al finanziamento del nostro debito pubblico. LEGGI TUTTO

  • in

    La fine del tabù Bitcoin

    Ascolta ora

    Nei giorni scorsi si è saputo che uno dei due maggiori istituti di credito italiani, Banca Intesa San Paolo, ha comprato 11 bitcoin. L’investimento è modesto e quindi si potrebbe tranquillamente ignorare la cosa. In realtà, però, siamo dinanzi alla fine di un tabù e all’aprirsi di un orizzonte inedito.Considerando che uno degli obiettivi dei bitcoin consiste proprio nell’evitare l’intermediazione bancaria, dal momento che due proprietari di criptomonete possono operare trasferimenti monetari diretti da un indirizzo all’altro, c’è da chiedersi come mai l’istituto bancario italiano così come già altri un po’ ovunque abbia deciso di entrare in questo mondo. Sembra tornare d’attualità la formula di Lenin, che un giorno affermò che i capitalisti gli avrebbero venduto la corda con quale li avrebbe impiccati.Il dato essenziale da cogliere è che le banche commerciali sono dinanzi a un bivio: da un lato sanno bene che il successo della creatura di Satoshi Nakamoto può essere pericolosoper i loro affari; e al tempo stesso comprendono che ignorare questo universo e lasciarlo interamente in mano ad altri significa perdere troppe opportunità.L’America fa a sé, perché lì lo scenario forse sta cambiando, se la politica obbligherà la banca centrale a modificare la sua strategia. Ma nel resto del mondo e specialmente in Europa i gestori delle monete di Stato avversano i bitcoin perché temono la fine del monopolio valutario e di quella costante manipolazione dell’economia che essi sono in grado di realizzare. Da parte loro, invece, le banche immaginano di poter fare da strumento di «mediazione» tra l’universo tecnologico dei bitcoin e il risparmiatore. Infatti quest’ultimo può saltare gli istituti di credito o altre realtà analoghe soltanto se possiede talune competenze ed è in grado di gestire da sé il suo portafoglio.Se le cose stanno così, ed in Europa è proprio questa la situazione, si annunciano tensioni crescenti tra le banche centrali e quelle commerciali, che non vorranno lasciarsi sfuggire la possibilità di trovare un proprio spazio anche nel nuovo mercato finanziario.Ovviamente quanto ogni giorno ci viene detto dai banchieri centrali e da chi gestisce gli istituti di credito ha poco a che fare con la realtà. Quanti sono nel board della Bce sostengono che il bitcoin vada osteggiato perché è una moneta volatile, non garantita dai governi, che tende a sfuggire ai controlli dei regolatori e può essere utilizzata pure dai criminali. Qualcuno tra i membri della classe politica e non solo arriva perfino a equiparare il bitcoin alla celebre truffa ordita da Charles Ponzi all’indomani della Prima guerra mondiale. LEGGI TUTTO

  • in

    Fisco, Bpm vince in Cassazione: recuperati 200 milioni

    Ascolta ora

    Buone notizie in casa Banco Bpm. L’istituto guidato dall’ad Giuseppe Castagna, al termine di una lunga battaglia legale ha incassato una sentenza favorevole che risolve un’annosa questione fiscale vecchia di vent’anni. La vicenda è legata alla controversa scalata a Banca Antonveneta da parte di Banca Popolare Italiana nel 2005, quest’ultima poi andata in crisi e confluita nel gruppo Banco Bpm a valle di una serie di fusioni e acquisizioni. Ebbene, la Corte di Cassazione, con sentenza di ieri, ha accolto il ricorso di Banco Bpm, annullando definitivamente gli avvisi di accertamento emessi nel 2011. Questi contestavano la deducibilità dei costi sostenuti durante l’operazione di scalata, allora al centro di un acceso dibattito mediatico e giudiziario. La sentenza consente alla banca di ottenere la restituzione di 201,9 milioni di euro, versati a titolo provvisorio nelle casse del Fisco tra il 2012 e il 2015, oltre agli interessi maturati. La Corte – spiega la nota di Piazza Meda – ha cassato la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, e ha accolto il ricorso originario proposto, annullando definitivamente gli avvisi di accertamento. LEGGI TUTTO

  • in

    Allarme sul risparmio italiano

    Decisamente non è cosa: qualunque tentativo di riportare una parvenza di concordia tra i grandi azionisti di Generali sembra destinato a schiantarsi. Mentre da settimane il presidente della compagnia Andrea Sironi tentava di ricucire strappi mai sanati, nella prospettiva di un accordo su una lista unica per la nomina del nuovo consiglio di amministrazione della compagnia in calendario ad aprile, lunedì 20 l’attuale cda si troverà sul tavolo un ordine del giorno che potrebbe azzerare qualunque ipotesi di ricomposizione. Quel giorno i consiglieri di Generali verranno informati dal ceo Philippe Donnet dello stato di avanzamento dei colloqui con la francese Natixis, per realizzare la più importante operazione di trasferimento di risparmi raccolti in Italia mai vista. In breve, la compagnia triestina sposterebbe 650 miliardi affidati alla sua gestione in una nuova piattaforma partecipata dalla controllata Generali Investment Holding (GIH) e dalla francese Natixis, terzo colosso del risparmio europeo con 1.300 miliardi gestiti, 1.200 dei quali verrebbero destinati al progetto comune.Apparentemente si tratta di una grande operazione, degna di non poco apprezzamento, capace di dare vita a uno dei primi player continentali, forte di quasi 2.000 miliardi di gestito. E tuttavia, più si apprendono i dettagli e più l’operazione rivela aspetti che ricordano la clamorosa svendita di Pioneer (225 miliardi di risparmio gestito) ceduta a fine 2016 da Unicredit, al tempo guidata dal francese Jean-Pierre Mustier, al gruppo Amundi – anch’esso francese – con il beneplacito dell’allora premier Matteo Renzi per motivi ignoti.Chiunque può perciò intuire il grado di delicatezza dell’accordo che fatalmente, stante i forti riflessi sulle Generali stesse e quindi sul mercato nazionale, oltre alle varie autorizzazioni dovrà essere formalmente notificata all’autorità di governo per le valutazioni in materia di golden power. Vale la pena precisare che mentre il conferimento di Natixis riguarderà le masse di risparmio raccolte da Groupe des Banques Populaires et des Caisses d’Espagne (Bpce) e da terzi, Generali conferirà GIH che gestisce le masse provenienti dai sottoscrittori delle polizze assicurative, masse che oggi finanziano anche il nostro debito pubblico: l’eventuale perdita di controllo su questa quantità enorme di risparmi è un rischio oggettivo per la sovranità finanziaria del nostro Paese.C’è poi il tema del controllo del nuovo soggetto. Stando alle informazioni circolate finora, GIH e Natixis avranno ciascuna il 50% della joint venture. Va però osservato che GIH, per effetto della recente acquisizione di Conning Holdings (117 miliardi di dollari di cespiti), ha un assetto azionario che vede Cathay Life azionista con il 16,75%. Il che, in trasparenza, riconoscerebbe a Generali un 42% diretto della futura entità, l’altro 8% a Cathay e il restante 50% ai francesi. Si aggiunga che la guida del nuovo soggetto (per i primi 5 anni) affidata a Woody Bradford, ceo di GIH, non dà particolari garanzie trattandosi di un manager da poco entrato nel mondo Generali attraverso l’acquisizione di Conning.Per non dire del fatto che la scelta di allocazione delle masse gestite non sarebbe reversibile, sicchè gli asset conferiti finiranno di fatto per essere incorporati in una nuova entità sotto l’ombrello del socio francese che in prospettiva avrà il controllo del veicolo.Se non vi saranno correzioni profonde, l’operazione rischia quindi di snaturare la stessa attività del gruppo assicurativo, che in sostanza rinuncia alla gestione di tutti i flussi finanziari in entrata e ai poteri decisionali sul loro impiego. Ed è inquietante che un’operazione così delicata finora non sia stata portata a conoscenza dei grandi soci – in particolare di Delfin (9,93% delle Generali) e di Francesco Gaetano Caltagirone (6,92%) – la cui unica fonte al momento sono le indiscrezioni pubblicate dalla stampa. Ancor più inquietante è apprendere che il primo tra i grandi azionisti della compagnia, ovvero Mediobanca (13,10%), figura nel pool degli advisor che assistono Generali – rivestendo di fatto il ruolo di regista dell’operazione – cosa che oltre a rappresentare un palese conflitto di interessi manifesta un’altrettanto evidente asimmetria informativa all’interno della compagine sociale.Peraltro, la scelta di affidare a un terzo la gestione del patrimonio, tale da snaturare l’oggetto sociale delle Generali, dovrebbe spettare ai soci: per nessuna ragione può essere rimessa agli amministratori, sui quali pendono ovvi profili di responsabilità. Una decisione di tale portata dovrebbe quindi essere sottoposta all’assemblea straordinaria, concedendo ai dissenzienti il diritto di recesso. Non si tratta di forzature o di partigianeria, per averne piena contezza basterebbe leggere con attenzione la pronuncia di questi giorni del Tribunale di Milano sull’impugnazione da parte di Vivendi della vendita della rete Tim al fondo Kkr, per intuire che anche sul piano giuridico c’è molto che stride. Quale che sia la volontà del cda, è fatale che della questione se ne discuta in un’assemblea dei soci semmai la trattativa dovesse proseguire.Infine i tempi sospetti. Oltre alle anomalie descritte, sorprende anche la fretta con la quale si vorrebbe realizzare l’operazione. A due mesi dal rinnovo del consiglio di amministrazione, è quantomeno ardito tentare di chiudere un’operazione che mette in gioco l’autonomia gestionale di 650 miliardi di risparmio nazionale. Davvero a Trieste non sono scattati i campanelli d’allarme, stante che tra due mesi l’assemblea dei soci dovrà anche decidere se rinnovare o meno il mandato al ceo Donnet, con la prospettiva potenziale di trovarsi vincolati per sempre a un accordo così importante sottoscritto dall’ex ceo? LEGGI TUTTO

  • in

    Orcel sfida Intesa Sanpaolo. “Unicredit vuole batterla”

    Ascolta ora

    Le parole perentorie di Carlo Messina («L’Italia è Intesa Sanpaolo») hanno destato, com’era evidente, l’attenzione del banchiere-rivale Andrea Orcel (in foto a sinistra), che ieri è tornato sulla crescente contrapposizione tra le due maggiori banche italiane. «Credo che abbiamo modelli di business e ambizioni simili, ma anche diversi. Intesa ha un modello molto focalizzato sul nostro Paese, mentre il nostro modello è molto più internazionale», ha spiegato l’ad di Unicredit a margine della presentazione della partnership con Ferrari.Orcel ha alternato carezze («Intesa è un’eccellenza in quel che fa») a proclami di sfida veri e propri: «Ci rendiamo conto che c’è un leader più grande di noi, che vogliamo sfidare e cercare di batterlo, anche se non abbiamo le dimensioni che hanno loro in questo Paese». In questa direzione va chiaramente l’assalto al fortino di Banco Bpm, su cui Unicredit ha lanciato un’Offerta pubblica di scambio.Il banchiere romano ha anche fatto riferimento alle ambizioni di forte crescita, implicitamente rispondendo al numero uno di Intesa che si era detto pronto a rafforzarsi approfittando della «distrazione» delle altre banche in attività di M&A. «La fiducia è stato il valore maggiore che ci ha catapultato in avanti e sarà lo stesso nei prossimi 3-4 anni durante i quali contiamo di sorprendere ancora con i nostri risultati». L’istituto di Piazza Gae Aulenti, stando alle stime di consensus, dovrebbe aver chiuso il 2024 con profitti netti per quasi 9,2 miliardi, mentre Intesa ha un obiettivo di utile a 8,5 miliardi per poi accelerare a 9 miliardi nel biennio 2025-26. Dal canto suo, Intesa Sanpaolo sotto la guida di Carlo Messina (in foto a destra) ha raggiunto la vetta europea per valore di mercato (quasi 73 miliardi rispetto ai 64 miliardi di Unicredit). LEGGI TUTTO

  • in

    Intesa Sanpaolo e Sace insieme per la transizione energetica

    Ascolta ora

    Intesa Sanpaolo ha lanciato una nuova iniziativa volta a sostenere gli investimenti delle imprese nella produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, con un focus particolare su fotovoltaico ed eolico. Questa sinergia con Sace mira a facilitare l’accesso a finanziamenti strutturati in project financing, fino a 50 milioni di euro, con un iter semplificato per importi fino a 15 milioni.L’accordo si inserisce nel contesto del Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (Pniec), che prevede che entro il 2030 il 64% della domanda elettrica nazionale sia coperta da fonti rinnovabili. Attualmente, questa percentuale è al 43%. La collaborazione si propone di promuovere gli investimenti, favorendo le imprese nell’accesso ai finanziamenti per progetti di energia verde. Grazie alla condivisione preliminare delle condizioni di finanziamento, il processo di approvazione sarà più rapido e snello. In questo modo i due istituti contribuiranno all’autonomia energetica delle aziende e del Paese.La sinergia consentirà alle imprese di beneficiare di finanziamenti fino a 50 milioni di euro per progetti di grande portata. Per facilitare l’accesso al credito, soprattutto per le Pmi ci sarà un accesso semplificato per i finanziamenti fino a 15 milioni. Sace garantirà fino al 50% dell’importo finanziato, riducendo il rischio per gli investitori. LEGGI TUTTO

  • in

    Illimity, da Banca Sella arriva il primo sì a Ifis

    Ernesto Fürstenberg Fassio, Presidente di Banca Ifis

    Ascolta ora

    Un primo, pesante endorsement all’Opas di Banca Ifis su Illimity arriva dal principale azionista della banca guidata da Corrado Passera. Ieri, infatti, il cda di Banca Sella (azionista al 10% di Illimity) si è riunito e ha diramato una nota affermando di aver «valutato con favore l’interesse di una controparte solida e credibile per la società Illimity e le prospettive di valore industriale di breve e lungo periodo espresse nel comunicato al mercato, connesse all’operazione, tali da favorire sinergie e sviluppo alla società stessa. Il Consiglio ha quindi espresso interesse a proseguire nella valutazione dell’offerta». LEGGI TUTTO