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    Il suono che fanno le piante

    Caricamento playerLe persone appassionate di giardinaggio dicono spesso che parlare alle piante le aiuti a crescere, anche se la questione è ancora dibattuta e non ci sono molti elementi scientifici per sostenerlo. Sembra invece certo che le piante parlino, a loro modo, e che i loro suoni possano aiutare a comprendere se hanno bisogno di acqua o se sono sotto particolari stress.Un gruppo di ricerca dell’Università di Tel Aviv, in Israele, ha provato ad ascoltare le piante utilizzando microfoni molto sensibili e in ambienti isolati acusticamente, riuscendo a registrare i suoni che producono a seconda delle circostanze e della loro specie di appartenenza. Lo studio si è concentrato sulle piante del tabacco (Nicotiana tabacum), del pomodoro (Solanum lycopersicum) e del grano tenero (Triticum aestivum), rendendo possibile la registrazione di suoni che devono essere poi elaborati per poter essere ascoltati con le nostre orecchie.Lo studio spiega che i suoni emessi dalle piante hanno una frequenza compresa tra i 20 e i 100 kilohertz, troppo alta per essere percepita dal nostro udito. I suoni registrati ricordano quelli dei chicchi di mais quando si prepara il pop corn, ma secondo il gruppo di ricerca sono dovuti alla cavitazione (formazione e implosione) delle piccole bolle d’aria che si producono all’interno dello xilema, il tessuto vegetale dentro cui passa la linfa, contenente acqua e sostanze nutrienti per la pianta.Pomodoro LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts di sabato 1 aprile 2023

    Ci sono molti animali col becco, tra quelli che valeva la pena fotografare nei giorni scorsi: un merlo, un pappagallo, una cicogna, un gheppio, tre oche, un gufo e un grifone di Rüppell, il primo avvoltoio nato allo zoo di Londra da più di 40 anni. Il resto della raccolta comprende un orso uscito dal letargo che si ambienta nel suo nuovo recinto, un alpaca a una fiera di animali e agnelli che si riparano dal nevischio sotto la propria madre..single-post-new article figure.split-gal-el .photo-container .arrow::after{content:’LE ALTRE FOTO’} LEGGI TUTTO

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    Virgin Orbit è in guai grossi

    Virgin Orbit, l’azienda spaziale del miliardario britannico Richard Branson, licenzierà l’85 per cento del proprio personale e cesserà le attività nell’immediato futuro, dopo non essere riuscita a ottenere nuovi finanziamenti. Dan Hart, il CEO della società, ha comunicato giovedì la notizia ai dipendenti. La conferma dei licenziamenti è contenuta in un documento fornito all’autorità che si occupa delle attività di borsa (SEC) negli Stati Uniti, dove l’azienda è registrata.Stando alla documentazione, Virgin Orbit licenzierà 675 dipendenti e ne manterrà un centinaio, condizione che renderà impossibili nuove attività di ricerca e di sperimentazione del sistema di lancio per trasportare satelliti in orbita. In sei anni di esistenza, l’azienda aveva sviluppato una soluzione alternativa ai lanci spaziali effettuati con razzi che partono dal suolo. Il suo sistema prevede che il razzo venga montato sotto l’ala di un grande aeroplano, un Boeing 747-400, e che sia lanciato quando l’aereo è già in quota in modo da poter utilizzare razzi meno potenti e costosi, idealmente più semplici da gestire.(Virgin Orbit)Lo scorso gennaio, Virgin Orbit aveva effettuato il primo tentativo di trasporto in orbita di un satellite, ma la missione era stata un fallimento. Dopo essersi staccato dall’ala del Boeing 747-400, il razzo LauncherOne aveva raggiunto lo Spazio, ma non l’altitudine corretta per collocare il satellite nella giusta orbita. Nonostante il fallimento, la società aveva comunque sottolineato l’importanza del risultato raggiunto, che secondo i suoi responsabili dimostrava la fattibilità del nuovo sistema.Le condizioni economiche di Virgin Orbit non erano comunque buone. Già a inizio marzo la società aveva annunciato una «pausa delle attività», rimandando a successivi aggiornamenti che sarebbero stati diffusi nelle settimane seguenti. Ora l’azienda ha annunciato che, attraverso la società Virgin Investments, Branson ha fornito circa 11 milioni di euro che saranno impiegati per la cessazione dei contratti e per i licenziamenti. Il costo complessivo dell’operazione sarà intorno ai 15 milioni di euro, sempre secondo le previsioni di Virgin Orbit.Dopo l’annuncio della cessazione delle attività, le azioni di Virgin Orbit hanno perso circa il 40 per cento del proprio valore in borsa. La notizia non ha comunque sorpreso più di tanto gli analisti, considerato che la società cercava da mesi nuovi finanziatori e che Branson aveva detto di non volerla più finanziare direttamente. Virgin Orbit era nata nel 2017 da una divisione di Virgin Galactic, altra società di Branson dedicata invece al turismo spaziale e in forte ritardo nelle proprie attività. LEGGI TUTTO

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    Che cos’è la “carne sintetica”

    In seguito alla presentazione di un disegno di legge del governo, da un paio di giorni si discute molto della cosiddetta “carne sintetica”, che come vedremo non è sintetica. Il provvedimento nasce col proposito di vietare la produzione e la vendita di «alimenti e mangimi sintetici» ed è stato fortemente voluto dal ministro dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, Francesco Lollobrigida, che nei mesi scorsi si era detto in più occasioni contrario non solo alla “carne prodotta in laboratorio”, ma anche alle farine di insetti e alle etichette con avvisi per la salute sugli alcolici: tutti ambiti regolamentati o comunque sorvegliati dalle autorità di controllo dell’Unione Europea.– Ascolta anche: La puntata di Ci vuole una scienza sulla “carne sintetica”Il disegno di legge nella sua attuale forma contiene riferimenti a multe da 10mila a 60mila euro in caso di violazione dei divieti, che secondo Lollobrigida: «Intendono tutelare la salute umana e il patrimonio agroalimentare». Le nuove norme contengono però varie contraddizioni, compreso un divieto di produzione e vendita di prodotti ottenuti a partire da «colture cellulari o tessuti derivanti da animali vertebrati», una definizione che comprende di fatto anche la carne e i suoi sottoprodotti, consumati ogni giorno sia per scopo alimentare sia per i mangimi. Trattandosi di un disegno di legge, il testo riceverà probabilmente numerose modifiche nel corso dei vari passaggi in parlamento e ci sono dubbi sulla sua approvazione e applicazione.Un certo interesse verso la “carne sintetica” era stato sollevato nei mesi scorsi da Coldiretti, associazione di rappresentanza nel settore agricolo in Italia molto influente soprattutto in ambito politico. Lo scorso anno, Coldiretti aveva avviato una petizione che chiedeva esplicitamente di vietare il “cibo sintetico”, con una definizione piuttosto vaga e non priva di ambiguità. La petizione era stata firmata dai dirigenti di molti partiti e aveva ricevuto l’appoggio del ministro Lollobrigida, diventando molto discussa sui giornali e online.Per far conoscere la propria petizione, alcune sezioni di Coldiretti avevano preparato volantini nei quali si metteva a confronto il cibo “naturale” con quello “sintetico”. Il primo era illustrato con immagini bucoliche e idilliache, mentre il secondo con strumenti impiegati in laboratorio, uno scienziato in tuta da decontaminazione e scritte come «fa male all’ambiente» e «prodotto in un bioreattore». Il volantino diceva inoltre che il “cibo sintetico” «spezza lo straordinario legame che unisce cibo e natura», senza fornire però ulteriori spiegazioni.In questi casi la parola “sintetico” viene spesso contrapposta a “naturale”, anche se in realtà è molto difficile dire che cosa non sia naturale, considerato che per ciò che viene prodotto in laboratorio si parte in fin dei conti da quello che già esiste in natura. In generale il termine “sintetico” viene impiegato per indicare il risultato di una sintesi al di fuori degli organismi viventi: un tessuto sintetico, come quelli degli abiti sportivi, per esempio, differisce dal cotone o dalla lana che derivano rispettivamente da una pianta e dal vello di varie specie di animali.Nel caso della carne, a oggi nessuna delle alternative di cui parla il ministro Lollobrigida può essere considerata sintetica. Le ricerche nel settore proseguono da anni e con lo scopo di trovare metodi più sostenibili per produrla, che specialmente nel caso degli allevamenti di bovini comporta un grande consumo di energia e molte emissioni di gas serra. Questi allevamenti sono poco efficienti, di conseguenza si studiano possibilità alternative e a minore impatto ambientale, che ridurrebbero anche i problemi etici che si porta dietro l’attuale sistema di produzione di carne a livello industriale.Alcune alternative sono già disponibili, ma non hanno nulla di sintetico. La cosiddetta “carne vegetale” o “finta carne” è basata sulla lavorazione di ingredienti come grano, olio di cocco, patate e altri vegetali con l’obiettivo di farle avere consistenza e aspetto della carne vera. Gli hamburger e le bistecche di questo tipo si possono acquistare nei supermercati o in alcuni fast-food e sono famosi soprattutto grazie a marchi come Impossible Foods e Beyond Meat.Un altro metodo di produzione di carne alternativa prevede invece lo sfruttamento di alcuni funghi e microrganismi, che producono proteine sostituibili a quelle degli animali. Di per sé è una tecnologia nota da oltre un secolo e in origine era impiegata per produrre mangimi, partendo da lieviti che attraverso i loro processi di fermentazione producevano proteine. Tra i prodotti più conosciuti derivati da questa tecnica c’è il Quorn, che tecnicamente non è un vegetale, ma una sorta di muffa che viene poi impastata con albume d’uovo o con leganti derivati dalle patate nella sua versione vegana. Il Quorn se adeguatamente lavorato può assumere una consistenza che ricorda quella della carne, anche se il sapore e l’aspetto sono distanti da quelli di una bistecca.(Getty Images)Proprio per via della mancanza di prodotti alternativi alla carne che si avvicinino all’esperienza di mangiare della carne, soprattutto rossa, da tempo si cerca di creare della carne in vitro, cioè partendo da cellule animali che vengono fatte crescere e differenziare per produrre tessuti, imitando di fatto ciò che avviene normalmente con la crescita di un essere vivente. È un ambito di ricerca piuttosto articolato e che ha portato a qualche risultato concreto, seppure su piccola scala e con esiti non sempre incoraggianti. Ci sono aziende in Israele, nei Paesi Bassi e negli Stati Uniti che hanno avviato la produzione, per lo più con un approccio dimostrativo per verificare la sostenibilità dei loro progetti. In Italia non ce ne sono.Le tecniche più diffuse prevedono di partire da cellule staminali, che non sono quindi ancora specializzate e che hanno la potenzialità di differenziarsi nei vari tipi di cellule mature che costituiscono poi un tessuto. Le cellule non sono “sintetiche”, ma derivano da un prelievo effettuato da animali già vivi o da embrioni, a seconda dei casi e dei filoni di ricerca e sviluppo.Isolate le cellule staminali idonee, si procede a inserirle in particolari contenitori nei quali è presente un terreno di coltura, di solito una soluzione che contiene sostanze nutrienti di vario tipo. In questo modo le cellule iniziano a crescere e a replicarsi, ma il procedimento non è sufficiente per arrivare a un tessuto paragonabile al muscolo di un animale, cioè alla carne che viene normalmente consumata. Le cellule hanno bisogno di una sorta di impalcatura che le sostenga, che permetta loro di respirare, continuare a proliferare e a differenziarsi. In pratica si deve trovare il modo di ricreare la struttura tridimensionale della carne, che è ciò che dà la consistenza e la capacità stessa del tessuto di non sfaldarsi durante la cottura.Il processo deve essere poi ripetuto su una scala molto più grande e può coinvolgere l’impiego dei bioreattori, quelli citati nel volantino di Coldiretti. Nella sua forma più semplice, un bioereattore non è una novità: è un contenitore che mantiene una certa temperatura e a seconda dei casi garantisce un flusso costante di nutrienti. Viene impiegato da millenni in campo alimentare. La produzione di birra o di yogurt, che implica la presenza di microorganismi che rendono possibile la fermentazione, avviene in contenitori che sono di fatto bioreattori. Lo stesso vale per produzioni molto più sofisticate in ambito farmaceutico, per esempio per la produzione dell’insulina, molto importante per tenere sotto controllo alcune forme di diabete.Le aziende che vogliono produrre carne in questo modo hanno finora incontrato difficoltà nel passare dalla modalità su piccola scala in vitro a quella su scale più grandi, utilizzando bioreattori che consentano di produrre molti chilogrammi di carne. Gli investimento nel settore non mancano, proprio per le potenzialità del sistema e per l’interesse di chi vorrebbe continuare a mangiare carne, ma senza gli svantaggi ambientali e i problemi etici legati agli allevamenti tradizionali.In generale, tutte le alternative alla carne bovina hanno minori conseguenze in termini di emissioni di anidride carbonica e altri gas serra nell’atmosfera, i principali responsabili del riscaldamento globale. I prodotti come il Quorn o la “carne vegetale” hanno un impatto molto basso, inferiore anche a quello della carne prodotta in laboratorio. Stimare gli effetti sull’ambiente non è comunque semplice, e cambieranno probabilmente nel momento in cui alcune di queste soluzioni diventeranno più diffuse.Il settore è ancora piccolo, coinvolge numerose startup e ci sono dubbi sulla loro capacità di sopravvivere, considerato che per ora si finanziano soprattutto grazie ai fondi di investimenti, che scommettono sul loro futuro. L’eventuale passaggio alla carne prodotta in modo alternativo è quindi ancora distante e per questo il disegno di legge voluto dal ministro Lollobrigida sembra più una scelta di comunicazione, che non avrà un particolare impatto sul settore alimentare.Il riferimento per ciò che è considerato sicuro da consumare sono del resto i regolamenti dell’Unione Europea, che considerano novità alimentari (“novel food”) questo tipo di prodotti, cioè alimenti mai consumati all’interno dell’UE in quantità significative e tali da essere definibili “cibo”. Ogni nuovo specifico alimento deve quindi ricevere un’autorizzazione, vincolata a una valutazione da parte dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA). Non è chiaro quale sia stata la considerazione da parte del ministro Lollobrigida su un pericolo imminente tale da approvare un disegno di legge «con procedura d’urgenza».L’eventuale messa in vendita in futuro di prodotti di carne alternativa non implicherebbe inoltre la fine degli allevamenti tradizionali, ma aggiungerebbe una possibilità di scelta in più per chi consuma carne. Anche per questo iniziative di legge di questo tipo, che avrebbero un impatto su un settore emergente, potrebbero ricevere obiezioni da parte delle autorità europee. LEGGI TUTTO

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    Fisica minima di Jenga

    Caricamento playerNel gennaio di 40 anni fa l’inventrice di giochi britannica Leslie Ann Scott portò alla London Toy Fair, una delle più importanti fiere di giocattoli al mondo, alcuni blocchetti di legno da impilare l’uno sull’altro costruendo una torre alquanto precaria. Quell’insieme di legnetti era una delle primissime versioni di Jenga, uno dei giochi da tavolo più conosciuti al mondo. Da allora ne sono stati venduti quasi 100 milioni di scatole, solo considerando le edizioni ufficiali, e il gioco tutto sommato semplice continua ad appassionare vecchie e nuove generazioni.Jenga deriva dalla parola kujenga, che significa “costruire” in swahili, la lingua ufficiale di alcuni stati africani come Tanzania, Kenya, Uganda e Ruanda. L’idea del gioco era un’evoluzione di un passatempo della famiglia di Scott, iniziato negli anni Settanta con alcuni semplici blocchetti di legno.La versione classica del gioco comprende 54 blocchi di legno, che formano una torre iniziale di 18 piani, quindi con tre blocchi per ogni piano. A turno, ogni giocatore deve togliere un blocco dalla torre e posizionarlo sulla sua sommità, utilizzando solamente una mano.Ne consegue che a ogni turno la torre diventa via via meno stabile, fino a quando non crolla. Il giocatore che fa cadere la torre oltre a perdere determina il vincitore, cioè il giocatore che lo ha preceduto e che era riuscito a far rimanere in piedi la pila di blocchi.Il fascino di Jenga deriva in parte dalle numerose conformazioni che può assumere la torre, visto l’alto numero di combinazioni possibili nella sottrazione dei pezzi per costruire i nuovi piani. Alcuni vincono soprattutto di destrezza, mentre altri provano a farsi un’idea delle forze in gioco, provando strategie a volte più stravaganti e che non sempre funzionano a dovere.Le variabili durante una partita sono molte, ma ci sono comunque alcuni punti fermi. Quando si prova a rimuovere un blocco, si devono fare i conti con la forza di gravità, la forza normale e con l’attrito. Come intuibile, la forza di gravità tende ad attrarre verso il basso i blocchi, ed è in fin dei conti la principale responsabile della vittoria di un giocatore e della sconfitta di tutti gli altri. La forza normale bilancia quella di gravità ed è sostanzialmente quella esercitata dal piano di appoggio per i blocchi alla base della torre, che a loro volta la esercitano sul piano seguente e così via (“normale” in questo caso è inteso come “ortogonale/verticale”).La forza di attrito è quella che si oppone al movimento dei blocchi di legno, relativamente alla superficie con cui sono a contatto. Le sue caratteristiche variano non solo a seconda delle altre forze, ma anche dal modo stesso in cui sono fatte le varie superfici a contatto.I blocchi di Jenga sono di legno, di conseguenza hanno caratteristiche che possono variare nel tempo, per esempio a causa dell’umidità o di come sono tagliati: alcuni hanno venature più rilevate di altri, altri hanno margini poco rifiniti o sono di dimensioni lievemente diverse. Ogni mossa legata a un blocco è in un certo senso unica e per questo i suoi esiti sono difficili da prevedere.Qualche tempo fa, il New York Times aveva analizzato alcune delle caratteristiche di Jenga, mettendo insieme qualche suggerimento per ottenere i migliori risultati.1. Rimuovi i blocchi che sono più vicini alla cimaRicordando che i blocchi possono essere rimossi solo al di sotto degli ultimi due piani in alto, in generale quelli comunque prossimi alla cima hanno meno peso sopra di loro, quindi sono più facili da rimuovere perché oppongono meno resistenza.2. Cerca i blocchi più sottili da rimuovereVisto che i blocchi di legno non sono tutti esattamente uguali, può accadere che il blocco centrale di un piano non sia completamente a contatto con gli altri blocchi e possa essere quindi sfilato molto più facilmente. È un trucco che usano spesso i giocatori più esperti, dopo avere sviluppato un certo occhio clinico per trovare i blocchi adatti.3. Pensa ai blocchi al centro di ogni piano e mira a quelli, prima che lo facciano gli altriLa torre deve buona parte della propria stabilità ai blocchi esterni di ogni piano, quelli centrali sono i più semplici da rimuovere senza conseguenze.4. Fai sempre attenzione al blocco sopra a quello che vuoi rimuovereAnche se il blocco che si vuole rimuovere sembra la scelta migliore, può accadere che la sua rimozione destabilizzi quello che ha subito sopra, specialmente se quest’ultimo è lievemente più grande e rimarrebbe quindi parzialmente in bilico. In molti casi la torre crolla proprio a causa di un blocco centrale che inizia a scivolare.5. Non picchiettare il blocco, fallo scorrere costantementeEssendoci di mezzo l’attrito, conviene applicare una forza uniforme nel momento in cui si sposta un blocco, proprio per evitare che con singoli strattoni ci si porti dietro altre parti della torre.6. Rimpiazza i blocchi coscienziosamenteSpesso dopo avere rimosso un blocco, la parte con più incognite, i giocatori mettono meno attenzione nel riposizionare il blocco nella parte superiore della torre. Se si rimuove un blocco laterale sulla sinistra, per esempio, di solito conviene piazzarlo in cima a destra (quindi dalla parte opposta) cercando di far trovare alla torre un nuovo equilibrio.7. Sposta lievemente i blocchi laterali verso l’esterno prima di rimuoverliSe si sta rimuovendo un blocco laterale, si può provare a farlo ruotare lievemente verso l’esterno, come se si stesse aprendo un libro. Il movimento può facilitare la sua successiva rimozione, riducendo almeno in parte l’attrito.Se siete in una situazione disperata, potete provare una mossa repentina. Che funzioni o fallisca, c’entrerà sempre la fisica. LEGGI TUTTO

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    Un raro avvistamento di uno squalo di plastica, forse

    Nell’estate del 2020 Giannis Papadakis notò un pesce alquanto particolare lungo un’area costiera della Grecia. Lo portò a riva, lo fotografò sugli scogli e inviò poi le immagini a un gruppo di ricercatori che lo studiarono e un paio di anni dopo pubblicarono una ricerca, annunciando un avvistamento nel Mediterraneo di uno squalo goblin (Mitsukurina owstoni), un pesce molto difficile da trovare in natura e che non era mai stato osservato prima in acque mediterranee. La scoperta aveva aperto un grande confronto tra gli esperti e a molti dubbi, fino al ritiro della ricerca perché forse quel pesce avvistato in Grecia non era uno squalo goblin, ma più banalmente un giocattolo di plastica.Il gruppo di ricerca aveva pubblicato lo studio nel maggio del 2022, citando tra la specie rare osservate nel Mediterraneo anche lo squalo goblin, che si distingue da altri squali per la forma della sua testa, con un rostro che ricorda un becco allungato e affusolato. È diffuso in buona parte del mondo, vive nelle profondità oceaniche e la maggior parte degli avvistamenti è stata storicamente effettuata al largo del Giappone, dove fu scoperto alla fine del diciannovesimo secolo.Dopo la pubblicazione della ricerca, vari esperti avevano iniziato a sollevare dubbi sulla scoperta nel Mediterraneo. C’erano diverse cose che non tornavano: era troppo piccolo rispetto agli esemplari che vengono osservati solitamente, le branchie avevano una strana forma e anche il colore lasciava qualche dubbio. L’esemplare ritrovato da Papadakis non era stato inoltre esaminato direttamente dagli autori della ricerca, che avevano basato le proprie osservazioni sulle fotografie.Nell’autunno dello scorso anno i dubbi erano diventati più concreti, con un articolo di commento firmato da un altro gruppo di ricerca. Era poi circolata una fotografia di uno squalo giocattolo venduto dalla casa editrice italiana DeAgostini che assomigliava molto a quello delle foto di Papadakis. Gli autori dello studio avevano ribadito di essere sicuri della scoperta, ammettendo comunque che l’esemplare era probabilmente di dimensioni inferiori rispetto a quelle inizialmente ipotizzate.Folks https://t.co/ViIsSoEn3t pic.twitter.com/N7fM0OooIP— Dr. David Shiffman (@WhySharksMatter) March 15, 2023Dopo ulteriori confronti e critiche, il 23 marzo scorso gli autori hanno infine convenuto che le foto fornite da Papadakis non erano sufficienti per una chiara identificazione dell’esemplare. Di conseguenza la scoperta segnalata nella loro ricerca è stata rimossa, pur non rendendo necessario il ritiro dell’intero studio che conteneva al suo interno la segnalazione di vari altri ritrovamenti nel Mediterraneo.La vicenda ha attirato qualche critica anche nei confronti di Mediterranean Marine Science, la rivista scientifica che a maggio del 2022 aveva pubblicato l’annuncio della scoperta. Lo studio aveva superato una revisione da parte di esperti indipendenti, a dimostrazione di come a volte i sistemi stessi di revisione possano portare a qualche errore (un problema noto da tempo e inevitabile, specialmente da quando si pubblicano moltissime ricerche negli ambiti più disparati).Quanto alle foto scattate da Papadakis, potremmo non sapere mai se ritraessero effettivamente un pesce o uno squalo di plastica venduto in edicola. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts di sabato 25 marzo 2023

    Coccodrilli e alligatori sono tra gli animali difficili da distinguere. Un modo per farlo è guardare la forma del muso: quello degli alligatori è a forma di U, largo e corto, mentre quello dei coccodrilli è più lungo, a forma di V. Inoltre se un alligatore ha la bocca chiusa gli si vedono quasi solo i denti dell’arcata superiore, mentre nel caso del coccodrillo si vedono anche quelli inferiori, alternati agli altri. L’abbiamo presa larga per dire che tra le foto di animali migliori della settimana ce n’è una in cui ci sembra di vedere un alligatore, ma non ci giureremmo..single-post-new article figure.split-gal-el .photo-container .arrow::after{content:’LE ALTRE FOTO’} LEGGI TUTTO

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    Una cosa difficilissima che stiamo imparando a fare

    La Hringvegur è la strada più importante dell’Islanda: copre buona parte del perimetro dell’isola e non a caso il suo nome significa letteralmente “strada anello”, o “tangenziale” per i meno romantici. A est della capitale Reykjavík, la desolazione delle terre scure vulcaniche attraversate dalla Hringvegur è interrotta dagli sbuffi bianchi di vapore acqueo di una delle tante centrali geotermiche dell’isola. Parte dell’energia elettrica prodotta viene impiegata a poca distanza per alimentare Orca, il più grande impianto al mondo per la rimozione dell’anidride carbonica dall’atmosfera, per dimostrare la fattibilità di una delle tecnologie che dovremo usare contro il cambiamento climatico.Ridurre il più possibile le emissioni di gas serra derivanti dalle attività umane è essenziale per evitare che la temperatura media globale continui ad aumentare, ma non è sufficiente. Come ha segnalato l’ultimo rapporto di sintesi sul clima delle Nazioni Unite diffuso lunedì 20 marzo, dovremo rimuovere dall’atmosfera le enormi quantità di anidride carbonica (CO2) che abbiamo immesso dall’inizio dell’epoca industriale per mantenerci sotto una soglia in cui gli effetti del cambiamento climatico saranno più gestibili. La quasi totalità degli studi scientifici lo segnala da tempo, ma sia rimuovere l’anidride carbonica in eccesso nell’atmosfera sia ridurne la produzione è complicato, soprattutto per come sono organizzate le nostre società e i modi in cui produciamo energia.Secondo il documento dell’ONU – che riassume le migliaia di pagine del Sesto rapporto di valutazione 2021-2022 – la rimozione della CO2 non è solamente un’opzione, ma una necessità. Oltre a eliminare l’eccesso di anidride carbonica già immessa, servirà per controbilanciare le emissioni che non potremo fare a meno di produrre in settori come l’agricoltura, il trasporto aereo, alcuni processi industriali e altri ambiti in cui la decarbonizzazione è attualmente troppo onerosa.Stimare la quantità di anidride carbonica da rimuovere per evitare che si superino i 2 °C di aumento della temperatura media globale rispetto al periodo preindustriale non è comunque semplice. Il limite deriva dall’Accordo di Parigi sul clima del 2015, che aveva fissato una soglia più ottimistica a 1,5 °C, entro la quale non riusciremo a rimanere con gli attuali andamenti.Un ampio studio realizzato dall’Università di Oxford sui processi di rimozione della CO2 su scala globale ha stimato che dovremmo togliere dall’atmosfera circa 2 miliardi di tonnellate di questo gas all’anno per contenere l’aumento della temperatura entro limiti accettabili nei prossimi decenni. La quantità equivale a circa il 5 per cento dei quasi 37 miliardi di tonnellate di anidride carbonica emessi in un anno derivanti solo dall’impiego dei combustibili fossili e del cemento.È una quantità enorme da rimuovere, se consideriamo che l’impianto di Orca in Islanda riesce a toglierne circa 3.700 tonnellate in un anno: meno dello 0,0002% dei due miliardi indicati dallo studio di Oxford. L’impianto ha soprattutto lo scopo di dimostrare la fattibilità di un sistema di cui si parla da molto tempo. In generale, del resto, le tecnologie per eliminare parte della CO2 dall’atmosfera esistono, ma non è sempre chiaro quanto siano praticabili su larga scala e quali rischi potrebbero comportare per l’ambiente.L’impianto Orca di Climeworks in Islanda (Climeworks)Orca è stato realizzato da Climeworks, un’azienda fondata nel 2009 a Zurigo che da tempo sperimenta soluzioni per la cattura atmosferica dell’anidride carbonica. Dopo averne sviluppate alcune in Svizzera, i suoi responsabili hanno pensato all’Islanda sia per la presenza degli impianti geotermici che consentono di produrre energia elettrica in modo sostenibile, sia per la possibilità di sfruttare le caratteristiche geologiche dell’isola per conservare l’anidride carbonica estratta dall’atmosfera.Dalla strada anello, Orca è a malapena visibile e non colpisce molto, sembra un comune impianto di aerazione, come quelli che si vedono spesso sopra gli stabilimenti industriali o i palazzi che ospitano uffici. La sua costruzione è costata poco meno di 10 milioni di euro, ma Climeworks pensa in grande e sta già costruendo a poca distanza un nuovo impianto che si chiama Mammoth e che rimuoverà nove volte l’anidride carbonica che riesce a filtrare Orca.Almeno concettualmente, il sistema di cattura della CO2 non è complicato ed è alquanto lineare. Alcune grandi ventole aspirano l’aria e la fanno passare attraverso un filtro altamente poroso al quale si legano le molecole di anidride carbonica. In un certo senso il filtro si comporta come una spugna quando viene in contatto con l’acqua: la intrappola e la trattiene.(Climeworks)Quando il filtro è saturo, cioè ha raccolto tutta la CO2 che poteva, lo scompartimento in cui si trova viene isolato dall’ambiente esterno e portato a una temperatura di 100 °C, in modo da potere estrarre l’anidride carbonica: nella sua forma gassosa viene convogliata in alcune tubature fino al vicino impianto di trattamento gestito da Carbfix, una collaborazione tra centri di ricerca e aziende per la conservazione della CO2 nel sottosuolo. Il gas viene combinato con l’acqua, producendo di fatto acqua gasata, che viene poi iniettata in profondità nelle rocce vulcaniche (basalti) islandesi. L’acqua gasata reagisce con il calcio e il magnesio presente nello strato roccioso e l’anidride carbonica rimane intrappolata nei basalti, senza che si producano sostanze secondarie pericolose.Campioni di rocce dopo il trattamento (Carbfix)Il sistema funziona, ma non tutti i luoghi della Terra presentano le stesse condizioni, come un sottosuolo che possa intrappolare facilmente l’anidride carbonica o impianti che producano energia elettrica senza emissioni. Inoltre, il livello stesso di efficienza di Orca e in generale dei sistemi per la cattura diretta della CO2 sono vincolati dalla bassa concentrazione di questo gas nell’aria. In media c’è una molecola di anidride carbonica ogni 2.500 molecole di aria che abbiamo intorno (per lo più ossigeno e azoto). L’impianto in Islanda deve filtrare circa due milioni di metri cubi di aria per ottenere una tonnellata di anidride carbonica: il processo è molto lento se non si dispone di una batteria potente di ventole.Gli stessi filtri sono difficili da sviluppare e Climeworks lavora continuamente alla ricerca di nuove fibre e materiali per migliorarne la resa. Fare ricerca è costoso e la società funziona come una startup, raccogliendo finanziamenti dagli investitori che scommettono sul suo futuro e sulla sostenibilità del modello economico che sta provando a costruire. Nel 2022, Climeworks ha ricevuto nuovi investimenti per circa 600 milioni di euro, rimanendo una delle startup meglio posizionate in un settore nato da poco e in cui iniziano a esserci i primi concorrenti.La cattura diretta non è comunque l’unico modo per rimuovere l’anidride carbonica dall’atmosfera, anche se rimane l’ambito in cui ci sono i maggiori investimenti visto il suo potenziale. Un altro sistema ritenuto promettente è quello del “biochar”, un materiale che si ottiene attraverso la pirolisi, cioè un processo di decomposizione termochimica realizzato fornendo calore in assenza di ossigeno.Gli esperimenti dimostrativi svolti finora, specialmente negli Stati Uniti, prevedono l’impiego del materiale vegetale che rimane al termine della raccolta nei campi agricoli, come per esempio le parti inutilizzate della pianta del mais. Solitamente questo viene incenerito o lasciato nei campi a decomporsi, un processo che fa sì che l’anidride carbonica raccolta naturalmente dalle piante durante la loro crescita venga nuovamente immessa nell’atmosfera. L’idea è di evitare che ciò accada, raccogliendo il materiale di scarto e sottoponendolo a pirolisi a una temperatura di alcune centinaia di °C. Superata la parte di avvio del processo in cui è necessaria una fonte di energia esterna, in seguito il sistema può sostenersi da solo sfruttando il calore che via via produce il materiale sottoposto a pirolisi.Produzione del biochar (TED Talk)A seconda delle metodologie applicate, si ottengono vari prodotti derivanti dalla pirolisi. Il principale è appunto il biochar, una sostanza granulare che assomiglia al comune carbone. I granuli sono prodotti anche grazie a reazioni che hanno coinvolto parte della CO2, presente nel materiale di scarto di partenza, che non finirà quindi nell’atmosfera. Il biochar ha la capacità di trattenere acqua, di conseguenza il suo impiego è considerato promettente proprio nei campi agricoli per migliorarne la resa. Gli studi sui potenziali benefici sono ancora in corso, ma anche in questo caso un numero crescente di startup sta valutando come sfruttare questo principio per ridurre la CO2 in circolazione.Gli altri prodotti derivanti dall’impiego della pirolisi in questo settore sono una sostanza oleosa, il bio-oil, e una gassosa. Mentre questa può essere impiegata come combustibile, a patto poi di raccogliere la CO2 derivante evitando che finisca nell’atmosfera, il bio-oil può essere conservato nei pozzi di petrolio e di gas ormai esausti. Charm, società statunitense che sta sperimentando molto nel settore, ha annunciato di avere raccolto in meno di un anno circa 5.500 tonnellate di anidride carbonica.Su larga scala soluzioni di questo tipo potrebbero contribuire sensibilmente alla rimozione di CO2 dall’atmosfera, ma ci sono ancora dubbi sull’efficienza, considerato che il materiale di scarto deve essere raccolto e trasportato agli impianti di pirolisi, con ulteriore produzione di emissioni visto che la maggior parte dei mezzi agricoli funziona ancora bruciando combustibili fossili.Tra le altre strade percorribili citate nel rapporto delle Nazioni Unite c’è la bioenergia con cattura e conservazione dell’anidride carbonica (BECCS). L’idea di partenza non è molto diversa da quella del biochar e parte dall’assunto che gli alberi sono un sistema formidabile per sottrarre la CO2 dall’atmosfera e conservarla. Ma piantare semplicemente nuovi alberi non sarebbe sufficiente e potrebbe anzi rivelarsi pericoloso in alcune circostanze: non tutti i luoghi della Terra sono adatti a ospitare foreste e alcune zone sono più soggette di altre agli incendi, che porterebbero a reintrodurre nell’atmosfera l’anidride carbonica che anno dopo anno gli alberi avevano conservato nel legno.(SDIS 33 via AP, La Presse)La BECCS prevede che gli alberi vengano bruciati per produrre calore per le reti di teleriscaldamento oppure per la produzione di energia elettrica, ma che al tempo stesso la CO2 che si produce venga da subito catturata a conservata nel sottosuolo, con una sorta di cattura diretta immediata (oppure con la pirolisi). In questo modo il bilancio dell’anidride carbonica è negativo, perché quella rimossa dalle piante non potrà più finire nuovamente nell’atmosfera. Non tutti sono convinti che possa funzionare su larga scala: la resa energetica dalla combustione del legno non è alta e molta energia dovrebbe essere impiegata per i sistemi di cattura della CO2 prodotta a valle del processo.Tra chi studia i sistemi di rimozione dell’anidride carbonica c’è chi fa progetti ancora più in grande, immaginando soluzioni che almeno sulla carta sembrano meno complicate, ma che richiederebbero un grande dispendio di risorse per essere realizzate. La più discussa e con qualche potenzialità deriva dall’accelerare un processo che avviene naturalmente e che riguarda le rocce vulcaniche. Sono presenti un po’ dappertutto sulla Terra e pian piano rimuovono CO2 dall’atmosfera attraverso la loro degradazione. È un processo che si verifica in migliaia di anni, ma che può essere accelerato polverizzando le rocce vulcaniche e spandendole sui campi, che avrebbero intanto a disposizione preziosi minerali per migliorare la loro resa.Parte di queste sostanze finirebbe poi nei fiumi e potrebbe contribuire a mitigare un altro grave effetto dell’aumento di emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera: l’acidificazione degli oceani. In condizioni normali, più o meno un quarto della CO2 nell’atmosfera finisce negli oceani dove a contatto con l’acqua diventa acido carbonico. Se la concentrazione di anidride carbonica aumenta, diventa maggiore anche la sua presenza nell’acqua marina con conseguenze per gli ecosistemi marini.Un’ipotesi è che l’aggiunta su grande scala di sostanze che rendono meno acidi (alcalini) gli oceani, come i silicati delle rocce vulcaniche, potrebbe ridurre il problema in caso di alto assorbimento di anidride carbonica da parte degli oceani. Altri metodi proposti riguardano la fertilizzazione oceanica, in modo che le minuscole specie vegetali presenti al suo interno (il fitoplancton) aumentino e gli oceani abbiano una più alta capacità di assorbire anidride carbonica.Lo sbiancamento dei coralli è uno degli effetti del riscaldamento globale (C. Jones/GBRMPA via AP)Sempre secondo le analisi dell’Università di Oxford, l’alcalinizzazione degli oceani è una tecnica dall’alto potenziale di mitigazione in termini di sottrazione dell’anidride carbonica, ma interventi su così larga scala su ecosistemi delicati come quelli oceanici potrebbero portare a risultati inattesi e pericolosi. Una ricerca pubblicata lo scorso ottobre ha messo inoltre in dubbio l’efficacia di soluzioni di questo tipo, oltre ai rischi per le molte specie animali e vegetali che popolano gli oceani.Al di là degli eventuali effetti indesiderati, vari sistemi di sottrazione di anidride carbonica dall’atmosfera richiedono l’impiego di molta energia per funzionare, e al momento i principali metodi per produrla derivano dallo sfruttamento dei combustibili fossili che portano alla produzione di grandi quantità di anidride carbonica. Ci sono di conseguenza dubbi sulla possibilità di portare progetti come quello di Orca in Islanda su larga scala, se non potranno essere alimentati da fonti energetiche rinnovabili.I più ottimisti ritengono che queste difficoltà potranno essere superate man mano che le tecnologie di rimozione della CO2 diventeranno più disponibili e diffuse, con una riduzione dei loro costi. Segnalano come le obiezioni che si fanno oggi ad alcuni di quei metodi ricordino quelle che si facevano in passato quando veniva messo in dubbio il passaggio all’eolico e al solare, come fonti alternative per produrre energia elettrica in modo più sostenibile. I prezzi si sono sensibilmente ridotti negli ultimi anni e si sono aperte nuove opportunità di mercato, che potrebbero emergere anche per la rimozione dell’anidride carbonica.Come ripetono ormai da tempo gli studi e i rapporti sul clima, non c’è una soluzione per il riscaldamento globale: solo la combinazione di più approcci e sistemi potrà consentirci di ridurre gli effetti dell’aumento della temperatura media globale, ormai inevitabili e con i quali ci dovremo confrontare per generazioni. I sistemi per rimuovere la CO2 saranno davvero utili solo se nel frattempo ridurremo il più possibile le emissioni di questo e degli altri gas serra, cercando di arrivare il prima possibile a un bilancio negativo nel quale sarà più l’anidride carbonica a essere sottratta rispetto a quella che viene emessa. Mentre leggevate questo articolo, comunque, una minuscola parte è già finita nelle profondità dell’Islanda. LEGGI TUTTO