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Tre anni di Meloni al potere. Il suo è il terzo governo più longevo: bilanci e prospettive
Ascolta la versione audio dell’articoloSono tre anni, oggi, dalle elezioni politiche che hanno portato la destra di Fratelli d’Italia per la prima volta al governo della Repubblica. «Tre anni che sembrano dieci», ha commentato da New York il 24 settembre, a margine dell’80esima Assemblea generale dell’Onu, la timoniera della svolta: Giorgia Meloni, prima premier che vanta ora il traguardo del terzo Esecutivo più longevo d’Italia, dopo il quarto e il secondo di Silvio Berlusconi, almeno se si guardano i giorni effettivi che a metà settembre hanno superato i 1.058 del Governo Craxi.Il ritorno del primato della politicaLe urne del 25 settembre 2022 hanno segnato il ritorno del primato della politica sull’impronta tecnico-istituzionale del Governo di Mario Draghi, durato venti mesi, giusto il tempo di mettere in sicurezza il Pnrr e rilanciare il Paese dopo il buio della pandemia. Il voto ha premiato proprio Fdi, l’unico partito, nato dalle ceneri di Alleanza nazionale e prima ancora del Msi, che era rimasto all’opposizione nell’era Draghi e che mai, prima di allora, era assurto alla guida del Paese. Fedeli alleati, per ora, gli azzurri di Forza Italia e i leghisti, capitanati rispettivamente dai vicepremier Antonio Tajani e Matteo Salvini. Debole ancora il fronte dell’opposizione, diviso e in competizione: uno dei fattori del successo e della popolarità della premier sinora.Loading…La via della prudenza sui conti pubbliciDal palco del comizio di Ancona, pochi giorni fa, Meloni ha elencato la lunga serie di previsioni smentite, dallo spread «al livello più basso degli ultimi 15 anni» agli occupati cresciuti di circa un milione dall’ottobre 2022, con il record del tasso di occupazione al Sud. La massima prudenza ha segnato finora la gestione dei conti pubblici, anche grazie alla navigazione cauta del ministro leghista dell’economia, Giancarlo Giorgetti, molto attento alla percezione dei mercati in presenza di un debito pubblico che resta tra i più alti d’Europa e dovrebbe chiudere il 2025 poco sopra i 3.080 miliardi.La crescita asfittica e la promessa di un intervento sui prezzi dell’energiaPiù deludenti i risultati in termini di Pil: per il 2025 e il 2026, secondo le stime Ocse, dovrebbe attestarsi sul +0,6 per cento. Il Governo prevede +0,5% per quest’anno. Sulla crescita asfittica pesano la dinamica della produzione industriale e i prezzi dell’energia: Meloni ha di nuovo riconosciuto che «sono un’assoluta priorità» e promesso un intervento «strutturale» per abbassarli. Insieme con «diverse iniziative per continuare ad aiutare le aziende che investono e sostenere il loro lavoro: su questo ci stiamo concentrando per la legge di bilancio».Le nubi internazionaliIl triennio ha registrato un drastico peggioramento del quadro internazionale: alla guerra in Ucraina si è sommato il conflitto Israele-Hamas. E l’avvento della seconda presidenza Trump negli Stati Uniti ha sconvolto ulteriormente equilibri già precari, costringendo l’Italia a un complicato gioco di equilibrismi. Meloni continua a fare da mediatrice tra le posizioni opposte dei suoi vice, ossia tra l’euroatlantismo senza se e senza ma di Tajani e le pulsioni filorusse di Salvini, che a sua volta sconta le conseguenze di un partito sempre più “vannaccizzato”. Soprattutto, la premier ha deciso di non smarcarsi mai dal presidente Usa Donald Trump in nome dell’unità dell’Occidente. Anche se i costi dell’accordo sui dazi al 15% con l’Ue per il nostro sistema produttivo sono tutti ancora da calcolare. More





Carceri, stop del governo a La Russa: niente mini indulto
Il presidente del Senato Ignazio La Russa torna a insistere su un “mini indulto” che consenta ai detenuti a cui manca “pochissimo” per estinguere la pena di uscire dal carcere… More





Giustizia, la doppia partita di Meloni e Schlein: tutti i rischi del referendum
Ascolta la versione audio dell’articoloSi racconta che il ministro leghista dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ai tempi in cui era sottosegretario a Palazzo Chigi nel Conte 1 usasse tenere nel suo studio una foto di Matteo Renzi a imperitura memoria della caducità delle vicende politiche: il riferimento era naturalmente al referendum del 2016 sulla riforma costituzionale (che aboliva il Senato elettivo e riformava il Titolo V della Costituzione) perso dall’allora premier e segretario del Pd, che aveva voluto personalizzare il voto dichiarando che in caso di sconfitta si sarebbe dimesso. Ecco, questo errore Giorgia Meloni non lo ha fatto e non lo farà: l’eventuale referendum sulla “madre di tutte le riforme”, ossia il premierato, è stato prudentemente rimandato alla prossima legislatura e il voto sulla riforma della giustizia targata Nordio – che in ogni caso, è stato precisato, non riguarderà le sorti del governo – sarà tenuto a distanza di sicurezza dalle comunali del giugno prossimo e quindi il prima possibile, tra marzo e aprile.La parola d’ordine nel centrodestra è «depoliticizzare» il referendum…Isolare il voto referendario è un modo per depoliticizzare il più possibile l’appuntamento in modo da intercettare più facilmente il favore dell’opinione pubblica moderata anche fuori dal centrodestra. Senza election day con le comunali, inoltre, si evita l’effetto trascinamento nei grandi centri urbani, dove tradizionalmente il Pd e la sinistra sono più forti. La parola d’ordine è dunque quella di smorzare i toni, di non personalizzare il confronto e di restare nel merito della riforma respingendo l’accusa delle opposizioni di attacco alla Costituzione e agli equilibri tra i poteri dello Stato.Loading…… ma per Meloni sarà difficile non mettere la faccia sulla riforma NordioMa per la premier sarà difficile non mettere la faccia sulla riforma che separa le carriere e divide in due il Csm, come ha dimostrato nei mesi scorsi lo scontro con la magistratura in merito ai ripetuti blocchi dei trasferimenti degli immigrati clandestini in Albania e come dimostra ancora in queste ore la reazione alla bocciatura del progetto sul Ponte sullo Stretto da parte della Corte dei conti: «L’ennesimo atto di invasione della giurisdizione sulle scelte del governo e del Parlamento… La riforma costituzionale della giustizia e la riforma della Corte dei conti rappresentano la risposta più adeguata a una intollerabile invadenza, che non fermerà l’azione del governo, sostenuta dal Parlamento». E sarà anche difficile non interpretare l’eventuale sconfitta referendaria come un segnale politico nei confronti del governo, quantomeno un primo segnale di sfiducia dopo tre anni di gradimento stabile. Da qui l’aurea profetica, o scaramantica, delle parole pronunciate dal presidente del Senato Ignazio La Russa, di certo non catalogabile tra i nemici della premier: «Io personalmente sono stato tra i fautori della separazione delle funzioni, che non separa le carriere ma rende già ora difficile il passaggio da una carriera all’altra. Per cui forse il gioco non valeva la candela, mentre invece l’aspetto dei due Csm è un tentativo di ridurre il peso delle correnti, vediamo se riesce».Il timore dem di un’altra battaglia persa dopo quella contro il Jobs actSul fronte opposto il timore di molti nel Pd è che la segretaria Elly Schlein, che pure nella riunione dei gruppi ha invitato cautamente a concentrarsi sul merito della riforma Nordio e a non politicizzare troppo il prossimo voto referendario, si faccia trascinare dal M5s e dalla Cigl nell’ennesima battaglia persa, nella speranza della “spallata al governo”, dopo il mancato quorum ai referendum sul lavoro del giugno scorso. Questa volta, trattandosi di un referendum confermativo di una riforma costituzionale, il quorum non è previsto: vincerà chi riuscirà a portare più sostenitori alle urne. Ma il clima nel Paese nei confronti della magistratura, come rilevano i sondaggi, è molto cambiato dai tempi di Tangentopoli e da quel “Resistere, resistere, resistere, come su un’irrinunciabile linea del Piave” pronunciato nel 2002 da Francesco Saverio Borelli.Opposizioni non compatte: Calenda e Renzi si sottraggono al fronte del NoPer di più, come accaduto con i quesiti contro il renziano Jobs act, le opposizioni non sono compatte: se Carlo Calenda con la sua Azione conferma il sì alla riforma che separa le carriere e divide in due il Csm e quindi si schiera per il Sì al referendum confermativo che si terrà il prima possibile, tra marzo e aprile, Matteo Renzi con la sua Italia viva conferma il voto di astensione. Astensione che alle urne si tramuterà in libertà di voto: favorevole alla separazione delle carriere, che era anche nel programma del fu Terzo polo alle ultime politiche, le perplessità dell’ex premier riguardano il meccanismo del sorteggio per l’elezione dei membri del Csm. Ma il non schierarsi con il Sì è in realtà una scelta tutta politica per non rompere con Schlein in vista delle elezioni del 2027, appuntamento che Renzi ha deciso di giocare nel campo del centrosinistra a differenza di Calenda che continua a inseguire il sogno di un Terzo polo autonomo. L’effetto è comunque lo stesso: al fronte del No mancherà del tutto il centro moderato. More





Femminicidi, Fratoianni: in piazza contro governo retrogrado
Femminicidi, Fratoianni: in piazza contro governo retrogrado | Video Sky TG24 More


Perché ora Zelensky può vincere
La guerra al tiranno nel 2022 e la resistenza nazionale Ucraina potrebbero essere un’occasione rivoluzionaria: l’Occidente potrebbe scendere dalla boria ideologica maturata dal secondo dopoguerra e pensare. Ma la vanagloria europea sull’unità trovata per sempre, sul glorioso anelito di democrazia che cambierà un mondo post Putin, può mettere a tacere tutte le scomode verità rivelate dal conflitto. Invece essere testimoni, come capita a me, di un Paese perennemente in guerra ma che aborre la guerra come ogni democrazia, è istruttivo, e suggerisce sincerità spietata. Vedersi piovere missili in testa, vivere in un Paese democratico e prospero in cui sono stati fatti almeno duemila morti in pochi anni con attacchi terroristici, e a cui sono state sferrate guerre da ogni parte, induce oggi tuttavia un pensiero ottimista: le piccole nazioni legate alla loro storia, alla loro cultura, ai loro eroi e libri, hanno una forza di resistenza straordinaria. L’Ucraina può vincere nonostante lo strazio. Zelensky, una specie di Isaac Babel post litteram, ebreo e cosacco, ce la può fare come Golda Meir o altri leader ebreo-ucraini scampati e combattenti. Certo lo sa anche lui dalla storia: non ci sarà aiuto sostanziale, nessun «arrivano i nostri», la solitudine è una lezione che da ebreo ha imparato, ma ha dalla sua la verità, come Israele. Putin è rimasto shoccato perchè aveva disegnato una realtà geopolitica inesistente, dove gli Ucraini erano Russi. Ma gli Ucraini non sono Russi, anzi hanno sempre cercato nessi a Occidente, nel bene e nel male, per sottrarsi alla Russia. Adesso la cultura europea per cui il nazionalismo era definitivamente infangato dal passato, deve capire che lo stato nazionale è portatore di libertà, non è nazifascista. Lo è invece l’imperialismo, che genera i mali attribuiti al nazionalismo. Gli esseri umani liberi combattono per la loro collettività coi loro eroi e le loro tradizioni, e le istituzioni – anche l’Ue! – devono rispettarli per sempre. Devono anche espellere senza pietà la stupida «cancel culture». C’è di più: durante la guerra abbiamo visto le teorie di genere in crisi, gli uomini sono rimasti a combattere, le mamme hanno preso per mano i bambini, e li hanno portati in salvo. Per aiutare la donna a essere libera e madre ci vuole oggi la magnifica ripresa di un femminismo deidelogizzato. Liberalismo, nazionalismo, tradizione, devono andare insieme, l’Europa deve separarsi dal linguaggio, la retorica socialista del sogno postbellico. La guerra è un altro testo da rileggere. I segnali di fumo pacifisti non fermano la cavalleria, e invece Putin va fermato. Qui, in Israele, il Paese non sopravviverebbe un giorno, se non sapesse vincere le guerre, se non coltivasse il valore. Ce ne vuole per resistere al rischio della vita dei propri figli. E non sopravviverebbe se i conservatori e liberal non combattessero insieme al bisogno. Beato il Paese che apprezza compatto i suoi eroi, non quello che non ne ha bisogno. Infine: i turchi, spiegava Bernard Lewis, non capivano che i cannoni troppo a prua sulle navi, col rinculo le rendevano instabili. Così furono affondati. Noi dobbiamo spostare i cannoni della democrazia, altrimenti l’impero europeo della libertà può andare in pezzi come quello ottomano. More
POLITICA
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