A forza di guardare la pagliuzza dell’inflazione la Bce ha perso di vista la trave della stagnazione. Ma ora i dati sui prezzi al consumo, scesi in settembre all’interno dell’eurozona all’1,8% e quindi sotto il target della banca centrale, non lasciano più alibi a Francoforte. La cui unica missione nella riunione in calendario il prossimo 17 ottobre deve essere una sola: tagliare i tagli almeno di un altro quarto di punto. Nella speranza che la mossa di alleggerimento, la terza dopo il mini-ciclo inaugurato lo scorso giugno, non giunga fuori tempo massimo.
Dopo mesi di tentennamenti giustificati dalla (presunta) resilienza del ciclo economico, il rischio è infatti che il deterioramento congiunturale si sia spinto così in profondità da rendere inefficace nel breve periodo l’azione della politica monetaria. La discesa agli inferi degli indici manifatturieri, che è il riflesso amplificato della crisi in cui versa soprattutto l’automotive europeo, dà la misura della gravità della situazione. Servirebbe quindi una terapia d’urto, come quella prescritta da JP Morgan, Goldman Sachs, Pnb Paribas, Barclays, Nomura e perfino dalla solitamente cauta Deutsche Bank. Tutte convinte che la Bce dovrebbe mettere in agenda una riduzione del costo del denaro per ognuna delle prossime riunioni fino a giugno ’25, in modo da ricollocare i tassi fra il 2 e 2,25% rispetto all’attuale 3,50%. Una proiezione inimmaginabile solo fino a qualche settimana fa, quando un ulteriore ammorbidimento non era dato per scontato. Alla luce degli ultimi dati sull’inflazione, mai così bassa dall’aprile 2021 e con un deciso ripiegamento anche in un Paese come la Germania (1,8%) che più di tutti ha pagato l’effetto dello choc energetico e degli aumenti salariali, i mercati assegnano invece ora l’85% di possibilità che fra due settimane l’Eurotower riduca il costo del denaro. Corroborando magari la decisione (come già fatto dalla Federal Reserve) con l’indicazione che il momento della svolta è arrivato. Un segnale atteso per mesi dall’Italia, dove i picchi del carovita sono solo un brutto ricordo (+0,8% i prezzi in settembre) e un accesso al credito più agevolato sarebbe di conforto per famiglie e imprese. Tassi più bassi darebbero inoltre più respiro alle finanze pubbliche, anche se è ormai sfumato il risparmio di circa tre miliardi di euro che sarebbe derivato quest’anno dalla minor spesa per interessi se l’azione di Francoforte fosse stata più energica.
Pur rifugiandosi nell’abituale locuzione secondo cui la Bce è data dependent, la presidente della Bce Christine Lagarde ha sdoganato di fatto, lunedì scorso, un calo dei tassi questo mese, sottolineando che l’economia è stagnante e che l’inflazione sta convergendo verso l’obiettivo del 2%. E anche un falco come il governatore della banca centrale finlandese, Olli Rehn, è uscito ieri allo scoperto per affermare che «abbiamo ricevuto un’ulteriore conferma che l’inflazione sta rallentando. A mio parere, ci sono più motivi per abbassare i tassi in ottobre».
Rehn sembra più temere, a questo punto, un possibile scivolamento di Eurolandia in recessione: «I venti contrari prevalenti per la crescita economica significano che non posso ancora dichiarare che un cosiddetto atterraggio morbido sia assicurato». Ora resta da vedere se alle parole corrisponderanno i fatti.